sabato 30 novembre 2013
Come autunno sotto i miei piedi
L’ultima volta che lo vidi, ricordo, indossava una maglietta gialla con una citazione in tedesco stampata sopra. Aveva i capelli più lunghi del solito e mi salutò abbracciandomi con la consueta euforia fisica alla quale io non riuscivo mai a tenere testa. Mi presentò una bella ragazza bionda che stava seduta sul sedile posteriore di una moto gigantesca, piena di ...bauletti e sacche. Io guardavo la moto e intanto cercavo di ripetere mentalmente il nome della ragazza che mi pareva di non aver neanche sentito tanto ero rimasto colpito da quella bella luce allegra, da vacanza prolungata, che grondava dagli occhi del mio amico.
<<Andiamo su>> disse facendo volare in aria la mano, con un gesto pigro di chi è abituato a farne di tutti i colori. Un gesto rituale per quelli come lui, condannati all’avventura, che io valutai crudelmente ricercato, esibito con ferocia disinvolta nei confronti di uno che l’avventura invece era abituato a viverla soltanto attraverso i racconti degli altri.
<<Ma su dove?>> risposi
<<Ma che ne so. Andiamo su, in Europa, da qualche parte. Poi si vedrà>>
<<Ah>> feci io pensando per non so quale motivo a mia madre e alla terrazza piena di gerani.
<<Andrai anche a Est?>>
<<E chi lo sa>> rispose con una scrollata di spalle. Poi incrociò lo sguardo della ragazza, che pensando si parlasse di lei sorrise <<Ma sì, vedrai che andiamo anche a est>>.
<<Non sono mai andato a est>> risposi
<<Ti mando una cartolina magari. Il forno ce l’hai sempre lì tanto, vero?>>.
<<Sì, sì. Sempre lì>> risposi mentre disegnavo un semicerchio con la punta della scarpa sul marciapiede.
Sospirò a fondo guardandomi, poi mi mollò una pacca sulla spalla <<Be’, ci si becca allora>>.
<<Sì. Stammi bene grande>> Lo salutai con foga, quasi volessi lanciargli dietro un pezzetto di me che s’infilasse in una di quelle sacche per farlo andare con loro in quella meravigliosa avventura. Salutai con un cenno della mano anche la ragazza, ma non se ne accorse. Li guardai allontanarsi, finché non scomparvero in fondo alla via, diretti su, oppure a est, chissà dove.
La notizia della sua morte mi giunse qualche anno più tardi. Era morto facendo una di quelle cose che io provavo paura soltanto a nominare. Pensai che in fondo se n’era andato facendo quello che aveva sempre sognato di fare, qualcosa di avventuroso, che fosse morto felice. Ma poi pensai che no, non era possibile, e che anzi doveva avere avuto una paura tremenda là sotto, sul fondo del mare, mentre non riusciva a tornare su. Pensai alla ragazza bionda, immobile sugli scogli, osservare con crescente terrore le ombre nell’acqua, aspettando di veder risalire il suo ragazzo, mentre dolorose le si facevano via via sempre più nitide nella mente le immagini dell’ultimo Natale passato tutti insieme, con l’enorme tavola piazzata proprio davanti al caminetto del salotto, l’atmosfera dolce e calda data dalla neve che scendeva copiosa fuori dalle finestre, con i parenti arrivati da tutta la Germania, e i genitori, che si erano tanto affezionati a quel simpatico ragazzo Italiano. “No, non può succederci nulla. Ci vogliono tutti così bene” avrà pensato di sicuro.
L’ho ripensato e addirittura sognato spesso nel corso degli anni. Un po’ perché in lui avevo colto e assaporato quell’aroma coraggioso, tipico delle persone dedite all’avventura, che mette radici profonde e involontarie negli animi semplici e stanziali, delle persone come me, così poco dotate d’inventiva. Ma soprattutto perché, l’avevo visto mettere in pratica con assoluta risolutezza un po’ tutti i suoi sogni, anche quelli più ingenui, che si ha il coraggio di confessare solo quando si è ancora giovani.
Nel sogno lo vedevo sempre in fondo a una strada, camminare con quell’andatura strana e ciondolante, le gambe sempre un po’ più avanti del busto, come se il corpo fosse combattuto, tra la metà inferiore che spingeva per ripartire e quella superiore ancora un po’ indecisa sul da fare. Io correvo, e correvo, e intanto lo chiamavo, ma poi, quando arrivavo in fondo alla via svoltavo e lui non c’era già più. Scomparso.
Ma l’altra notte il sogno è stato diverso. La moto invece di andare avanti veniva indietro. L’aria era piena dell’odore ferroso dell’autunno. Tuonava e faceva freddo, ma lui indossava ancora quella maglietta a mezze maniche gialla.
<<Sei ancora qui>> mi ha detto
<<E tu? Ci sei andato poi a est?>>
<<Sì, ci sono stato… ma ti dirò, in fondo non si sta male neanche qui. Alla fine uno deve pur fermarsi da qualche parte no?>>.
<<Ma io, ci andrò mai secondo te?>>
Si è voltato dall’altra parte, lo sguardo tristemente interrogativo perlustrava il viale alberato in lontananza, come se cercasse qualcosa di carino da dirmi. Ma poi, Quando è tornato a guardarmi sorrideva, aveva di nuovo quella bella luce negli occhi che sprigionava allegria e finiva irrimediabilmente, ogni volta, per inzuppare tutta la persona di una frizzante e irresistibile atmosfera da campeggio. <<Eh, può darsi. Chissà>> mi ha detto <<Ma se ci vai, portati qualcuno. Un amico, una ragazza, ma non andarci solo. Nessuno ti crederebbe mai se no. Servirà qualcuno che racconti la tua storia un giorno>>.
Nel sogno guardo la moto allontanarsi, prima di riprendere il cammino. Mi tappo le orecchie e urlo a squarciagola per non sentir passare la vita, e fingo di non riconoscere, nella fioca luce del mattino che sa già di pomeriggio, la pesantezza degli anni che scricchiolano, come autunno sotto i miei piedi.
venerdì 15 novembre 2013
Una corsa contro il tempo
“Ma si, è quella”
“No era più avanti”
“Ti sbagli. Vedi che non ti ricordi nulla? Ammettilo, all’inizio ti scivolavo addosso come… ”
“Non è vero. Ricordo tutto. Ma non era quella”
Lui grugnisce, piega la testa e guarda la panchina cercando un’altra angolazione. L’effetto non cambia. Sembra proprio quella, ma dopo quasi sessant’anni, chi può dirlo?
“Va bene. Ora ti siedi lì” dice lui indicando la parte sinistra “ e passi una mano sotto, dove si uniscono le sbarre. Se oltre ai quattro bulloni senti anche una punta di ferro tagliente allora vuol dire che è proprio quella”
“ Come fai a sapere che ci sono quattro bulloni ?”
“Appunto. Se oltre ai quattro bulloni senti anche il pezzo di ferro staccato, allora vuol dire che è proprio la nostra panchina. Lo so perché quando ci sedemmo sapevo che era arrivato il momento di fare o dire qualcosa. Mica si poteva camminare tutto il giorno senza far finta di nulla, no? Ti eri messa tutta in ghingheri. E prima di dirti che mi piacevi, ricordo che mi graffiai l’indice lì sotto perché ero imbarazzatissimo e non riuscivo a tener ferme le mani. Cercavo le parole e intanto toccavo e ritoccavo quei quattro bulloni, come se mi aspettassi chissà cosa ”
“Ah” Fa lei sorridendo, con la limpidezza negli occhi che viene naturale alle persone innamorate. Poi, piroettando su se stessa come una dama d’altri tempi invitata a ballare, sempre sostenendo il suo sguardo, si siede e inizia a tastare sotto la panchina.
Lui la guarda e di nuovo la vede come la vedeva allora: tanto bella da risultargli inavvicinabile, col suo buon odore d’intimità domestica addosso, e la solita luce allegra e spensierata negli occhi. Che ci faceva all’epoca seduto accanto a una creatura tanto speciale?
Lei sfiora il ferro con la punta delle dita, poi di colpo si ferma. Apre la bocca per dire qualcosa, ma sente di non aver voce a sufficienza per dire tutto quello che vorrebbe dire, allora lascia alla consueta espressione dolce, con la quale cercava sempre di sminuire almeno un po’ l’ingombro della troppa bellezza, il compito di farlo.
Il vento fa volare le foglie da tutte le parti, il fiume subito dietro la siepe scivola brontolando verso il mare e trascina con se quello che la montagna non vuol più tenersi. Le scarpe da jogging quasi non fanno rumore sull’asfalto appena posato del parco. Il giovane corre da più di un’ora, si aggiusta la cerniera del K-way alzandola ancora un po'. Il sole sparge la sua luce fioca dietro un sipario sottile di nuvole che ingrigisce i pensieri.
Il vecchietto è poco più avanti, immobile in mezzo al viale. Tra poco lo investirà. Dovrà spostarsi lui perché quello sembra proprio andato, perso in chissà quale ragionamento da anziano. Eccolo lì, gli passa a meno di dieci centimetri e quello neanche se ne accorge. Fissa con occhi tristi una panchina vuota e odora di vecchio; come una casa senza finestre.
sabato 5 ottobre 2013
Un'amara consuetudine di vita
<<Ci sono i pomodori in offerta alla coop>> dice lui cambiando canale alla tv.
<<che hai detto?>> Anna volta appena la testa fermando per un attimo le mani. Il sapone nel lavello ha un buon odore di limone.
<<Ci sono i pomodori in offerta alla coop. Tutta la settimana>>
<<ah>> risponde lei, e di nuovo, sente morire la speranza.
Poi riprende il lavoro. La scena è sempre la solita. Lei lava e la vita che va avanti, subito dietro, intorno al tavolo. Le stoviglie sono diminuite di pari passo con l’andare degli anni. Prima il lavello era sempre pieno, adesso non sa più neanche se valga la pena usare tutto quel sapone. Le carote lesse poi non sporcano, sono gentili, sembra si siano accorte da un pezzo di essere cibo per vecchi e si comportano di conseguenza. Vanno via leggere leggere, quasi senza lasciare traccia.
Lei lavava e gli altri ridevano e scherzavano, parlando di quello e di quell’altro seduti attorno al tavolo. Poi, il primo scricchiolio. Il figlio grande che non vuole più uscire con loro il sabato sera. Quindici anni, eppure sembrava appena il giorno precedente che se lo portava in braccio per casa cantandogli canzoncine piene di fate e topolini affamati per farlo addormentare, oppure ai giardini con le amiche subito dopo la scuola, dal dottore a fare il vaccino. E non c’è nulla da fare. Che gli dici? Lo obblighi forse a uscire con i genitori al sabato sera solo perché vuoi perpetuare all’infinito quello stato di grazia che ti si è creato dentro, mentre sai benissimo, essere nell’ordine naturale delle cose arrivi a una conclusione?
Poi anche l’altro inizia a fare le sue giuste rimostranze, un po’ prima però, incoraggiato dalla sommossa del maggiore, come a dire “in fondo si può tentare. Sono carne e ossa anche loro, solo più grandi “. E finiscono per ritrovarsi soli il sabato sera, lui e lei, come all’inizio di tutto, quando non avrebbero barattato l’unione delle loro solitudini con niente al mondo.
<<Si potrebbe andare al cinema>> aveva tentato lui un paio di volte con poca convinzione <<si… ma non c’è niente d’interessante>> aveva risposto lei. E allora avevano finito per starsene in casa, a sentirli respirare attraverso i muri, ad ascoltarli fingendo di fare altro, a godersi quel che rimaneva del loro intero, del tutt’uno che era cresciuto a loro insaputa insieme ai figli, e che soltanto adesso, spinto dalla forza inarrestabile e indisciplinata di una sacrosanta adolescenza, si rivelava per ciò che era: Un’autentica necessità.
<<Abbiamo fatto il ciclo vitale oggi a scuola>> le disse una volta in macchina il grande. Se lo ricorda alla perfezione quel giorno Anna . Samuele aveva otto anni e non stava fermo un attimo.
<< ah si? E che cos’è, sentiamo>> gli aveva chiesto lei guardandolo con quel sorriso paziente che fanno sempre i genitori quando chiedono ai figli piccoli di spiegar loro qualcosa che sanno già.
<<Allora… >> aveva detto lui iniziando a gesticolare, per dare ulteriore supporto alle parole <<Gli esseri viventi, cioè l’uomo, e anche tutti gli animali… insomma; nascono, crescono, si riproducono, e poi muoiono>> e le aveva spiattellato con la brutalità disinteressata che solo un bambino riesce ad avere quella verità, così assoluta e indecente. Trentotto anni ed era già a tre quarti del cammino.
<<ah>> aveva risposto lei fingendosi impressionata, con il labbro inferiore che intanto era sgusciato in avanti. Aveva acceso il tergicristallo ricorda, un gesto involontario, istintivo, come per lavar via quelle parole . <<Non piove mamma!>> aveva esclamato lui scoppiando a ridere.
<<che scema>> e si era messa a ridere anche lei, mentre una carezza leggera e macabra le scendeva giù fin dentro l’anima e metteva radici, facendo germogliare i primi sentori di un futuro inevitabile.
Ma la vita c’era ancora a quei tempi, eccome. Erano relativamente giovani lei e il suo Bruno, e il “ciclo vitale” della scuola, non contemplava il lento e confortevole invecchiamento dell’essere umano, che modella a suo piacimento l’ambiente e gli anni a venire prima di arrivare al naturale epilogo. E poi comunque c’erano i piatti che erano ancora gli stessi. Quattro scodelle, posate, bicchieri, piatti e tutto. La lavastoviglie? Per l’amor del cielo! Il bello era stare lì, con le mani in ammollo e sentirli ridere e scherzare, guardando soddisfatta la mattonellina verde e blu proprio sopra il miscelatore, che ormai conosceva a memoria.
Erano giovani ma il futuro si era appostato poco più in là, con le sue lunghe ombre e lo sguardo perso in quel nulla che porta dritto alla vecchiaia. C’erano arrivati di gran carriera ognuno seguendo la propria strada, guardando i figli crescere e infine andarsene, disseminandola di ricordi che servivano per ancorarsi a quel poco che rimaneva da vivere, a ricordargli chi erano, da dove erano arrivati. E l’arrivo era proprio lì dove erano partiti insieme tanti anni addietro. Lei al lavello, e lui solo, seduto al tavolo a guardare la tv.
Poi è ovvio che ci si ammala. I vecchi sembra non riescano a fare altro. Ricorda il tonfo, il rumore dell’armadietto con i medicinali che viene giù, e lui lì disteso in bagno con la bava alla bocca. Un anziano di settantadue anni con mezzo corpo irrigidito che farfuglia il nome della madre. L’ospedale, la scarsa attenzione dei medici, i troppi, veramente troppi ringraziamenti che aveva elargito a chiunque avesse mostrato un minimo interessamento per la sorte del suo Bruno.
<<Mi raccomando la terapia, eh?>> le aveva detto il dottorino abbastanza giovane da poter essere suo nipote <<Gli esercizi sono fondamentali per riacquistare un po’ di tono>> e lei che non riusciva a pensare ad altro mentre lo guardava “Ma perché mi urla così? Io non sono sorda” <<Vedrà che nel giro di un paio d’anni suo marito >> ma poi si era fermato << Insomma lei capisce…. >> aveva detto il ragazzetto annuendo con scarsa convinzione, porgendole il foglio da firmare per la dimissione.
Certo, aveva capito. L’aveva lavato, pulito, nutrito, cambiato, ci aveva parlato mentre lui, perso chissà dove fissava immobile la TV. Gli aveva parlato del primo incontro, del loro primo viaggio in auto su quell’autostrada appena finita di costruire. E com’era bello il suo Bruno, con quei capelli al vento che le facevano pensare alla foto di quel bel poeta anarchico Francese che sembrava pronto a regalare a chiunque l’avesse fatto innamorare tutti i sogni del mondo. Gli aveva parlato della nascita del primo figlio, di come avevano riso più tardi tornando a casa, ricordandosi che in preda al panico lui invece di svoltare per l’ospedale aveva tirato dritto, puntando verso la collina dove erano soliti fare i picnic. E del secondo parto, quando l’ostetrica aveva deciso che il bambino poteva anche nascere lì, in sala travaglio <<Se lei mi da una mano lo facciamo nascere qui, non importa neanche andare in sala parto>> gli aveva detto l’ostetrica. E lui voltandosi con quel faccione così buono e i capelli da poeta aveva annuito felice, con le lacrime agli occhi, poi parlandole con il solo movimento delle labbra senza fare alcun rumore le aveva detto <<Ti amo Anna. Oddio, quanto ti amo>>
Lei parlava accarezzandogli la mano, ma non succedeva mai niente, qualcosa se l’era preso e portato via, lasciandosi dietro soltanto il guscio.
Poi era iniziato il dolore. Da prima piano, lo sentiva avanzare con la lentezza meticolosa di chi ha a disposizione tutto il tempo, dando segnali contraddittori, vigliacchi. La malattia aveva schierato le truppe come un consumato stratega prima di iniziare l’attacco vero e proprio. E l’attacco era avvenuto proprio come se l’era aspettato; di notte, come succede in guerra. Aveva fatto piano per non svegliare il suo Bruno, era corsa in bagno stando attenta a piangere senza farsi sentire, tenendosi una mano all’altezza dello stomaco. Ma il mattino l’aveva trovata di nuovo lì, al suo posto, accanto al suo Bruno.
Era durato quanto? Un paio d’anni? Di più? Era dimagrita, la pelle era arrivata ad assumere la consistenza della cartapesta, la carne aveva abbandonato gli zigomi che avevano preso a sporgere ai lati del viso come monconi di qualcos’altro. Ma non aveva ceduto. Con il ventre in fiamme, senza fiato, semincosciente, il mattino la trovava sempre lì, al suo posto, accanto al suo uomo malato. C’erano giorni in cui non riusciva neanche a parlare, lo accarezzava e basta, e allora le sembrava che a volte lui, avesse qualche reazione, muovesse la mano, o addirittura tentasse di dire qualcosa. Battendosi come una leonessa aveva difeso il cucciolo, aveva preso a morsi il male, l’aveva preso a calci in culo finché non s’era arreso, aveva alzato bandiera bianca, e con la solita lentezza meticolosa con la quale era comparso, aveva iniziato la ritirata.
E lui aveva finito per migliorare. Le labbra avevano iniziato a muoversi, le braccia, tutto. Un po’ tardi, ma meglio che niente. E con l’andare del tempo, a una velocità inaspettata, il suo Bruno aveva ripreso a parlare. In modo strano, incoerente, strascicando e mangiandosi le parole, citando esclusivamente la solita offerta di tanti anni addietro sui pomodori , ma parlava. A camminare, tutto piegato da una parte, come un albero cresciuto sul fianco della montagna sempre esposto al vento, ma camminava. A uscire, a volte glielo riportavano a casa in ambulanza, altre, chiamava uno dei figli che andava a riprenderle il marito alla solita panchina ai giardini, dove era capace di passare immobile seduto l’intera giornata, ma usciva. Era tornato, ma svuotato di tutto.
E allora aveva moltiplicato gli sforzi per vedere cosa fosse rimasto là dentro dell’uomo che con gli occhi colmi di lacrime quel giorno l’aveva guardata e le aveva detto <<Oddio, quanto ti amo>> per poterli rivedere di nuovo, anche solo per un’ultima volta quegli occhi innamorati. Ma non succedeva nulla. Lui sedeva al tavolo, la guardava impaziente finché non andava a sedersi accanto a lui e iniziava ad accarezzargli la mano, poi tornava a sprofondare lo sguardo nella Tv, tornando in se ogni tanto solo per ricordarle quell’offerta.
“E’ stato amore?” si chiedeva a volte guardando il profilo imperturbabile del marito, perso tra le nebbie laceranti di antichi passati . “Certo che è stato amore, che altro se no? ” si rispondeva subito vergognandosi “ che ti aspettavi eh? Che ti eri messa in testa di fare? E’ tutto qui non c’è altro. E’ Il ciclo vitale. I ragazzi se ne vanno, l’uomo si ammala e poi muore”
<<Tre chili al prezzo di due>> continua lui senza tono di voce
<<eh, magari domani ci faccio un salto>> risponde lei con gli occhi fissi sulla mattonellina verde e blu, che al contrario di lei non è invecchiata per nulla, e scintilla ancora come quando c’era vita tra le mura della stanza<<domani>> ripete piano senza farsi sentire.
Posa un altro piatto lavato e resta così; appoggiata con entrambe le mani al mobile della cucina, con gli occhi velati della patina dei vecchi, ad osservare le gocce colare e infine scivolare via. Giù nello scarico, fino alle fogne, dove si uniranno ad altre gocce, che insieme andranno a formare una marea sotterranea e silenziosa, in una lenta, inarrestabile marcia verso la fine. Come un’amara consuetudine di vita.
venerdì 20 settembre 2013
L'abitudine alla mediocrità (un racconto)
<<Lo sai che c’è?>> dice quello con i baffi e la maglietta a righe gialle guardandosi intorno
<<No, non lo so che c’è>> risponde l’altro, che indossa una bella la camicia blu scuro aperta fino al quarto bottone, che fa tanto “Target & Management” <<Sentiamo che c’è, avanti. Dimmelo tu >>
<<C’è che sono circondato da giovani, ecco che c’è. Prima dove mi giravo vedevo solo vecchi, ora vedo soltanto… >>
<<Oddio. Non è che mi parti con una di quelle palle sul perché siamo qui e tutto il resto , vero?>>
<<No, no…>> risponde l’altro <<tranquillo>>.
<<No perché guarda, io non ce la faccio proprio oggi>>.
<<Tranquillo, ho detto. Tranquillo>> ripete
<<Se solo avessimo un po’ più di tempo>> dice dopo una breve pausa quello con la bella camicia aperta fino al quarto bottone.
<<sì ma non ce l’abbiamo>>
<<lo so, lo so>>
“Posso portarvi due caffè?”
<<Per me no, grazie>>
<<No, no, neanch’io>> risponde quello con la camicia <<C’ho un bruciore di stomaco che…>>
<<Ma scusa chiamalo no?>> dice l’altro, mentre per abitudine passa controvoglia il dito sullo schermo del cellulare appoggiato sul tavolo <<che ti costa?>>
<<no>>
<<ma perché?>>
<<perché no>>
<<Ah, bello>> dice annuendo profondamente <<Ora è chiaro per davvero>> lo sguardo continua a passare dal telefono ai commensali, quasi mai incrocia quello dell’uomo con la camicia blu <<Non capisco proprio che cazzo ti costa>> aggiunge dopo un po’ picchiettando il tavolo con il telefono mentre continua a guardarsi intorno <<Non è il mio lavoro lo sai, sennò lo chiamerei io>> dice allungando le braccia sul tavolo <<prendi il telefono lo chiami e gli dici che non ce la facciamo per venerdì. >>
<<No. Non lo chiamo>>
<<Proprio non capisco. Scusa eh, ma non sono mai stato un mostro d’intelligenza. A scuola avevo tutti … >>
<<Perché se lo chiamo una volta dopo devo chiamarlo sempre io, d’accordo? E non ci voglio più parlare con quello lì>>
<<Ma perché? Che è successo?>>
<<No, niente>>
<<Dai… >> dice maglietta a righe gialle mentre guarda con interesse il libro aperto poggiato sul tavolo accanto al loro
<<Ma ti fai un po’ di cazzi tuoi?>> dice strozzando la voce l’altro
<<Perché, che c’è?>>
<<Quella lì>> dice l’uomo con la camicia blu indicando la ragazza con i capelli corti seduta al tavolo accanto al loro <<che ti frega che legge, eh? E’ un’ora che guardi>>
Baffo sorride sollevando le sopracciglia <<Dimmi che è successo Gianni, dai>>.
<<Lo sai che mi ha detto l’ultima volta che abbiamo viaggiato insieme, eh? Parlavamo della vita… o della morte. Non ricordo. E mi fa. Oh, giuro che io non gli ho mai fatto nulla di male, eh. Tu mi conosci come sono Mario, vero ? Se c’è una zanzara la lascio succhiare io>> Mario annuisce <<Insomma>> prosegue l’uomo con la camicia blu che adesso sappiamo chiamarsi Gianni << mi fa “Perché tu pensi che quando sarai morto, io mi ricorderò di te?”>>
<<Nooo… >>
<<Giuro che ha detto proprio così>>
<<Ma perché?>>
<<E che cazzo ne so io. Gli piace dire queste cattiverie alla gente. Così; Tanto per vedere l’effetto che fa. C’avrà problemi in casa sua. Ma che c’entro io, scusa? E poi, mica è uno che ti chiede scusa dopo “Ormai l’ho detta, a che serve scusarsi” mi disse una volta “Anche se mi scusassi non cambierebbe certo il fatto che l’ho detta” Ecco. Tu dimmi se è un discorso da persona intelligente questo>>
<<Certo che no>>
<<oh, ma la pianti?>>
<<Scusa un attimo, eh>> gli fa cenno con la mano Mario <<Serve mica un libro sa?>> dice rivolto alla ragazza con i capelli corti seduta al tavolo accanto al loro
<<come?>> risponde quella
<<per fare il pane>> dice lui indicando il libro con le ricette per fare il pane in casa aperto sul tavolo della ragazza <<non serve mica un libro; “Ci vuole tempo” diceva sempre mio nonno che faceva il fornaio; “Il tempo!”>>
<<Ah, ma lo faccio più che altro per la mamma, sa? Lei vuole soltanto mangiare prodotti macrobiotici, e questo libro…>> Le spiegazioni della ragazza dai capelli corti non interessano Mario, che però cortesemente finge di ascoltarla ancora un po’, spegnendo lentamente il sorriso di circostanza . La voce della ragazza, insieme alla faccia piuttosto anonima, perdono velocemente consistenza, finendo per impastarsi nel sottofondo monotono del ristorante intorno alla decima parola.
<<bella figura di merda>> sussurra Gianni quando Mario tutto soddisfatto torna a guardarlo
<<Macché!… Dicevi allora?>>
<<Ancora trecento chilometri insieme dovevamo fare per arrivare a Cuneo. In macchina, con uno che mi ha appena detto che se crepo per lui è come se non fossi mai esistito. Ti rendi conto? Lo volevo buttare fuori ‘sto stronzo. Con tutti i soldi che gli ho prestato prima che gli girasse bene, accidenti a lui>>
<<Ricevuta o fattura?>>
<<Fattura, fattura>> dice Gianni porgendo un biglietto al cameriere << Tu lo prendi un caffè ? Si? Anch’io allora. Due caffè per favore>>
Quando il cameriere se ne va, immemori del discorso precedente, i due restano silenziosi, bloccati sul nulla che precede la tentazione di parlare di cose che non riguardano il lavoro. Si crea un silenzio piuttosto imbarazzante.
<<E poi questo casino l’hai fatto tu. Risolvilo no?>> dice a un tratto Gianni rianimandosi
<<IO?>>
<<Si, tu>>
<<Ma che cazzo dici? Ho chiamato tutti. Ho avvertito tutti che stava per succedere. Dimmi te che altro potevo fare?>>
<<Potevi evitare che succedesse, Einstein!>>
<<Ma vaffanculo va…>>
<<Ma vacci tu affanculo, cretino>> dice Gianni voltandosi, ruotando di scatto la mano come per scacciare una mosca fastidiosa.
<<Quanto manca ancora a Voghera?>> chiede dopo un po’
<<una trentina… >> il telefono sul tavolo in mezzo ai due s’illumina e inizia a vibrare<<E’ lui>> scandisce sottovoce Mario indicando il telefono. “Vuoi?” dice la faccia mezza sorridente , mentre la mano porge il telefono . Gianni fa l’espressione di quello al quale capitano tutte le incombenze del mondo, poi sospirando profondamente prende il telefono.
<<Si?>> dice <<Ehilà! Senti chi c’è!>> esclama sorridendo a Mario che lo guarda con le mani giunte davanti alla bocca <<Si, si, è qui con me>> Gianni indica a Mario che stanno parlando di lui <<Ha mangiato da fare schifo… come sempre>> dice ridendo <<eh…>> ora ascolta quello che dice l’altro <<si, si. >> annuisce tutto sorridente <<Pagato io, ovvio>> ascolta di nuovo <<ah… anche con te, eh?>> Mario si scalda, e con la mano fa un gesto come per dire “che cazzo dici?” a Gianni . <<Si, si. Non vedo l’ora>> dice Gianni <<Almeno tu paghi, non sei mica come questo barbone qui>> fa cenno a Mario che è a fin di bene. Quello si calma un po’.
<<Si… si, senti a proposito>> dice Gianni facendosi serio <<Per quella cosa là>> poi ascolta <<Si, quella>> di nuovo ascolta <<Ecco… io non credo proprio che ce la faremo per venerdì, sai?>> Mario trattiene il respiro <<Non prima di Martedì>> dice Gianni con un filo di voce <<Mercoledì è sicuro. Si>> dice <<Si. Sicuro>> ripete iniziando a tremare visibilmente dalla gioia. <<Ok! Ok! Sei un grande! Grazie davvero. Ti voglio bene, con tutta l’eterosessualità di cui sono capace>> dice Gianni con voce piena d’entusiasmo, stringendo forte il polso a Mario, che visibilmente commosso, prima gli fa cenno di andarci piano con le lusinghe, poi strozza l’impulso di colpire con forza il tavolo con un pugno liberatorio.
<<Allora? Allora?>>
<<Tutto a posto. Abbiamo tempo fino a mercoledì>>
<<Alla grande>> esclama Mario <<Cazzo, alla grande. C’è andata davvero bene, no?>> poi si blocca guardando qualcosa alle spalle di Gianni <<Ma siamo sicuri vero?>> dice mentre gli occhi gli si velano di qualcosa << Non è che poi arriviamo lì lunedì e…>>
<<Tranquillo>> risponde Gianni << E’ uno a posto lui . Se ti dice una cosa la fa>> e anche lui però resta un po’ bloccato, cercando di acchiappare qualcosa che gli sfugge tra i pensieri. Qualcosa di sinistro e marcio che sa gli causerebbe dolore se solo riuscisse ad acciuffarla, a guardarla bene in faccia quella cosa. Ma proprio non ce la fa adesso, felice com’è <<… la fa. Tranquillo, è uno a posto lui>> ripete annuendo, mentre l’immagine del figlio piccolissimo che gioca tranquillo e sereno sul prato davanti alla loro bella casa nuova prende corpo, smorzando piano piano, come un clemente anestetico, ogni tentazione di guardare oltre gli occhi vuoti e felici del collega.
martedì 10 settembre 2013
L'ombra. Biografia di un passato (un racconto)
Ho sentito proprio “tac”, di nuovo. Si è spezzata la cima che mi teneva ancorato al molo e ho iniziato a muovermi. Mi sto allontanando, senza dubbio. Dovrei stare calmo ma non ce la faccio, ho preso anche a tremare, guarda che roba. Più mi agito più mi allontano. E più mi allontano più diminuiscono le possibilità che qualcuno riesca a soccorrermi, a dare una mano, lo so. Brutta bruttissima sensazione, allontanarsi, avventurarsi in mare aperto così… senza poter fare niente. Nessuno, niente, la spiaggia è deserta inutile anche urlare; Sono solo.
Forse è proprio così che è iniziata. Me ne stavo troppo solo, in disparte, è stata colpa mia. Ma a me piaceva starmene in disparte, facevo mica male a nessuno io.
E’ difficile da spiegare, dovreste vedere con i miei occhi , sentire con quello che sento io , perché se uno la racconta mica gli credono mai fino in fondo. E’ come un vuoto che ti risucchia da dentro e tu che collassi su te stesso, un allontanamento involontario inevitabile, una specie di esilio della ragione. Vedo la riva, è subito lì proprio davanti a me, ma per quanto mi sforzi di tornare indietro, non faccio altro che peggiorare la situazione. Dovevo imparare a nuotare! Quello potevo farlo, anzi, dovevo farlo ! Tutti i miei amici sanno nuotare (più o meno) Li ho visti io , con i miei occhi, avventurarsi belli baldanzosi tra i cavalloni, mentre io rimanevo sempre un po’ indietro, sul bagnasciuga, senza fiato, a registrare il fallimento. Dovevo chiedere a mio fratello. Lui si che sa come si fa. Lui si che sa cavarsela in tutte le situazioni. Non lascerebbe certo la barchetta allontanarsi troppo dalla riva. Un tuffo, una bella nuotata e sarebbe già di ritorno ! E magari tutti li, mio padre , mia madre, parenti , amici, tutti ad applaudire <<Ah, mio figlio!>> Papà gli mollerebbe una bella pacca affettuosa sulla spalla, come si fa con i compagni di bevuta, i compagni di “team”, i vecchi compagni di classe che rivedi dopo tanto tempo. Poi, alla fine, non dimenticherebbe certo di voltarsi verso di me facendo quell’espressione così falsa che ormai tutti devono girare la testa da un’altra parte e fingere di non averla neanche vista tanto è imbarazzante <<Sono orgoglioso anche di te sai?>> vorrebbe dire quella faccia << Non farti venire strane idee per la testa. Per me siete uguali>>
Che mi sarebbe costato chiedere aiuto? <<Hey mi aiuti ?>> mi avrebbero preso un po’ in giro d’accordo <<Come>> avrebbero detto additandomi come un fenomeno da baraccone <<Ventisette anni e non sai ancora nuotare? Ragazzi, guardate un po' questo!>> ma qualche anima gentile s’incontra ancora, NO? Ed eccomi qui; Gran bel guaio. La paura che toglie il fiato, che gela il sangue; Il vecchio adagio di sempre. E poi c’è questo peso enorme che sento proprio qui, all’altezza del cuore. Ma non c’è niente, neanche una catenina, nulla . Non so se riesco a spiegarmi bene. E’ probabile di no. E’ probabile che questa angoscia cominci presto anche a farmi sragionare. E allora si che sarebbero guai. Allora si che anche se dovessero trarmi in salvo in qualche modo, se sentissero che sragiono, tirerebbero un calcio alla barchetta e mi ributterebbero indietro; e tanti saluti.
E’ buio, buio intorno e dentro di me. Dev’essere sera, ma non me ne frega niente. Ormai riesco a malapena a distinguere qualche luce qua e là, dovrei mangiare, mangiavo sempre a quest’ora ma non ho fame. L’ho fatto. Sono in mare aperto. Adesso non c’è più nessuna possibilità di salvezza. Magari una nave di passaggio? Macché… Parliamoci chiaro: Quante sono le probabilità che questa insignificante barchetta venga avvistata in mezzo a tutto questo mare? Ma anche se accadesse, se fossi avvistato in difficoltà tra le onde, qualcuno si prenderebbe forse la briga di deviare e venire a soccorrere un perfetto sconosciuto?
“Finché c’è vita c’è speranza!” Ma è vita questa? E possibile una vita così? Tutto solo, in mezzo al mare? Non si arriva forse ad augurarsi una bella tempesta di quelle vere, spaventose…. la barchetta che si rigira, e tu che vai giù, e ancora più giù, fino in fondo, fino alla fine. E poi la pace, il silenzio, e poi più nulla, fine delle trasmissioni, fine di tutto, anche della sofferenza.
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Non so come mi possono essere venuti certi pensieri ieri. Capitemi un po’ per favore, lo sconforto, la paura, la sensazione d’impotenza. Ah! Ma oggi no. Oggi è stato un giorno incredibile. Fin dall’inizio mi sono reso conto di quanto sciocca e immotivata fosse la mia paura. Che c’è di male a starsene un po’ soli in fondo? A chi non viene voglia prima o poi di allontanarsi un po’ dagli altri?
Spesso mi sento dire “sei sempre triste , ma che hai? Non ti manca niente ” E’ vero, ok… ammetto, è indubbiamente vero. Molto spesso sono triste, e non mi manca niente. Il fatto è che io conosco la felicità! Si ma quella vera, eh! Quella con la F maiuscola, quella che smette di essere cosa astratta di cui un po’ tutti si riempiono la bocca, e prende corpo fino a diventare concreta, un piccolo sole che senti di poterti infilare in tasca. Non una cosetta da niente, di quelle che capitato agli altri insomma. No, no! Io sto parlando della “cosa vera” . Quella che succede solo a quelli come me dopo una lunga astinenza, che ti fa il solletico al cuore, che ti manda giù nei polmoni quella buona arietta effervescente , che ti fa affrontare ogni tipo di problema come se fosse niente, che ti da coraggio per spiegare il tuo punto di vista su questo e quello, e che ti fa pensare che in fondo c’è del buono un po’ in tutti, devi soltanto sforzarti di stare te un po’ più sul pezzo. E arriva moltiplicata per i giorni in cui se n’è restata ingabbiata là dentro chissà dove. E quando arriva, quando succede, la sento subito e mi accorgo di esserci immerso fino ai capelli, allora mi dico “Ecco ora sono felice. Anzi no. Sono davvero felice” ma poi subito dopo mi viene da pensare “Questo momento mi mancherà”
Mi ha svegliato una canzone. Non è niente di speciale lo so, ma per me ha grande valore e nei momenti belli spesso mi salta in mente così; da sola. Ho provato a farla ascoltare agli altri, alla mia ragazza, ai miei amici , ma a loro non dice niente. Sapete com’è, una cosa si appiccica a un momento preciso, alla magia di una situazione, e diventa involontaria coprotagonista di un momento solo vostro. E allora si sente l’urgenza di condividere la gioia con gli altri, di fargliela sentire anche a loro, perché siamo così buoni in fondo , no? E non si vogliono privare gli altri di tutto quel ben di Dio. Ma quando lo si fa, quando poi si condivide, gli altri non capiscono, a loro non dice nulla, e si resta sempre un po’ delusi dalla loro ottusità, dalla loro ignoranza.
E’ iniziata con un sole che non lasciava scampo alla tristezza, una luce tutta particolare che riflettendo sull’acqua esplodeva in milioni di colori e odori sensazionali, qualche nuvoletta qua e là, giusto per rendere tutto più credibile. C’era una fragranza squisita nell’aria, un gusto dolce di futuro , di voglia di fare, di speranza. E più mi domandavo il perché della tanta sofferenza di ieri e più che non riuscivo a trovare una risposta. Peccato non potessero vedermi, peccato essere così distante da tutti in un momento del genere.
Insomma sonnecchiavo tranquillo, l’acqua sciabordava stanca col brusio di sempre intorno alla barchetta , il sole mi solleticava la pelle e c’era questa canzone che mi girava nella testa. E allora ho iniziato a vedere le cose, ho iniziato a ricordare, ho iniziato a sentire. Mi sono detto: <<bene ora mi tuffo e torno indietro. Ce la posso fare, non sono così distante dopo tutto, verranno a prendermi. Avranno già organizzato i soccorsi, staranno già cercandomi, forse dovrei davvero andar loro incontro, e tutto sarebbe più semplice. I miei saranno preoccupatissimi. Non voglio che siano preoccupati i miei. Lavorano già tanto e non voglio aggiungere loro altre preoccupazioni, altri patimenti>> E invece ho ceduto alla pigrizia. Ok, lo so, lo so, non dovevo ma è proprio andata così. Troppo bella la sensazione, volevo farla durare più a lungo possibile, avevo paura che svanisse non appena mi fossi mosso “Posso sempre buttarmi e nuotare fino a riva quando torno ad essere triste” ho pensato.
Sono quasi riuscito a non vedere l’ombra per tutto il giorno. “Ombra”? Si, bé ormai l’ho detto. Non volevo… Mi spiego. C’è , e metto subito le mani avanti dicendo che non so assolutamente da quanto tempo, insomma c’è questa cosa. Io la chiamo ombra, ma forse non è neanche il termine esatto. E’ più un languore di catastrofe, una grinza sull’anima. E si manifesta diciamo appunto come un’ombra all’orizzonte di quei pochi pensieri felici che ogni tanto, in giorni particolarmente positivi come oggi, capitano anche a me. Ecco, diciamo che è sempre laggiù, in fondo . Nei giorni buoni come oggi resta defilata sullo sfondo, disturba appena con la sua presenza ma solo se proprio mi metto a cercarla con gli occhi. Nei giorni non buoni invece la barchetta s’infila proprio dentro a quella massa scura e allora là dentro può succederti di tutto. La vita resta appesa a un filo e a volte preghi che il filo si spezzi, e che… no! NO! E NO! Oggi non è andata per nulla così, e io non voglio parlare di cose tristi oggi.
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E’ passata una nave stamani. Hanno tirato una cima, il ponte era pieno di gente sporta a guardare giù, verso di me, verso il mio guscio, il mio bozzolo. E tutti che dicevano <<Avanti dai. Afferra la fune che ti issiamo a bordo e ti riportiamo indietro. Dai, puoi ancora farcela; Ti faremo parlare. Vedrai che tutto si sistemerà >> Ma oggi non era proprio giornata, e gli ho urlato di andarsene, che non volevo parlare con nessuno, che per quanto mi riguardava potevano portarsi via anche il cibo e tutto il resto, che mi lasciassero soltanto quella canzone , non ho bisogno di altro. Tutti abbiamo un momento particolare, no? Chi non ce l’ha. Un momento che identifichi subito come quello speciale, che ti torna sempre in mente quando ti metti a frugare tra i ricordi. Magari non è neanche un momento, è un periodo, un tempo. E c’è per forza una colonna sonora appiccicata al vostro momentuccio, un odore, un immagine, non ditemi di no! La mia canzone mi riporta indietro a quando avevo più o meno venti, ventuno anni, ed ero bello giovane e forte ma già profondamente segnato da quest’animo sempre in affanno. Non che sia vecchio ora intendiamoci, ma essere ancora giovane e bello, adesso come allora, non mi serve a nulla.
Navigavo proprio come ora, a vista, in completa balia delle onde. Non ho mai visto acque più scure e agitate di quelle, ero giovane cazzo, così giovane, eppure già così malandato. Ma non ho ceduto. Ah no! Ho tenuto duro perché a quell’età la battaglia è feroce. Il futuro è subito lì che spinge e lotta perché gli si corra incontro. Ho salutato il caro dolce amico ventenne e l’ho abbandonato nella nebbia, tra le braccia dell’ombra e sono tornato indietro. Ho remato con le mani, con le braccia, con tutto quello che avevo a disposizione, ho pianto, ho sanguinato, sono morto e risorto tante di quelle volte. Ho gettato come si dice il cuore oltre l’ostacolo, sono riuscito a stabilizzare la barchetta e a fare rotta verso la mia famiglia, verso il domani. Ricordo ancora il suo saluto imbarazzato quando partii, i suoi sorrisi stentati, di circostanza <<così te ne vai? Mi lasci tutto solo? Ho un po’ di paura. Ma sono contento per te… è la cosa la migliore da fare. >> Non gli risposi neanche, lo guardai con occhi colmi di lacrime e un espressione che la diceva lunga su quelli che fossero i miei sentimenti per quel povero ragazzo così fragile <<va, va! Ci penso io qui. Torna da loro>> mi disse mentre con il piede allontanava dal molo la barca << Spero di non rivederti mai più. Mi mancherai! Fagli vedere chi sei >> Urlò con tutto il fiato quando ormai la nebbia l’aveva già nascosto ai miei occhi. Lo sentii far partire la canzone, la nostra canzone. Ed ecco svelato il mistero. Una malinconia dolcissima, una prelibatezza per pochi intenditori.
Quindi per farla breve, mi sono rintanato ancora di più sul fondo della mia barcuccia e alla fine hanno dovuto per forza di cose desistere. Non potevano certo tentare un arrembaggio, portarmici con la forza a “parlare”. Hanno detto che ritenteranno domani, se Dio vorrà, hanno detto che forse sarà un giorno migliore, e mi troveranno più ragionevole.
Non credo che troveranno nulla. Questo vuoto… questo vuoto è inconcepibile, come una lenta, infinita, caduta nell’abisso. Fossi pazzo sarebbe tutta un’altra storia, il fatto è che io sono perfettamente consapevole di quello che mi sta capitando, e la cosa forse peggiore di tutte è che questo dolore acuisce quello che so arriverà dopo. Ogni attacco mi lascia se possibile più sensibile, più vulnerabile, è come se mi portasse via strati su strati di pelle lasciando scoperti i tessuti, esponendoli a ogni genere di infezione. Solo che qui s’è infettato è il cuore. Il dolore, il senso di oppressione, il vuoto che sento vengono proprio da lì. Mettiamola così, e tagliamo la testa al toro, che qui con tutta questa bella metafora alla fine non ci capisco più un cazzo neanche io alla fine.
Il nemico è invisibile, è armato fino ai denti, e ha preso residenza proprio dentro di me. Non si scappa da se stessi.
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Il mare è calmo oggi. Non c’è un filo di vento. Non sono tornati, non hanno tentato, nessun abbordaggio. Meglio così, meglio che inizino a dimenticarmi. Il risucchio è dolce e affettuoso, la barchetta avanza tranquilla sull’acqua appena increspata dagli ultimi residui della battaglia. L’ombra da vicino non fa paura, anzi. E’ come ritrovarsi faccia a faccia con una persona che avevi visto solo da lontano ,e, a torto, avevi giudicato male cucendogli addosso un vestito che non era il suo. C’è della poesia in questa leggera nebbiolina, quaggiù le acque del mondo non arrivano a lambire i porti dell’animo, e sussultano fedeli a una recondita passione le foglie della vita. Si prova un certo benessere a vedere come alla fine la complicatissima matassa si srotola proprio davanti ai tuoi occhi e tutto torna ad avere un senso, una direzione. Com’era semplice in fondo lasciarsi andare, smettere di lottare, rinunciare alla tentazione di esistere e arrivare fin qui, in questa beata agonia, dove i pensieri diventano specchi, e l’universo, mi sta tutto in una lacrima.
venerdì 23 agosto 2013
Il topo e la luna (un racconto)
Inutile cercare di spiegarla a chi non l’ha vista, a chi non c’era. A volte, ripensandoci, perfino io vengo assalito dal dubbio di averla davvero vissuta, di esserci stato veramente quella notte di fine estate, in piazza a vedere l’eclissi di luna.
Io e il mio amico Simone c’eravamo preparati proprio bene ricordo. A me ovviamente toccava portare da mangiare. Essendo figlio di fornaio la gente si era in qualche modo messa in testa che in casa mia il cibo lo si raccattasse semplicemente di terra, che la mamma non avesse bisogno di cucinare, che allungasse una mano verso il pavimento per poi tirarla su e trovarci, ogni volta, qualcosa di diverso e assolutamente gustoso attaccato.
In fondo a me andava bene così perché di portare i fumetti da leggere per ingannare l’attesa non se ne parlava proprio. Su quel fronte nessuno poteva battere Simone, proprio come a fare il verso del leone. Anche lì era imbattibile! Parola mia che l’ho sentito.
Aveva una conoscenza sconfinata in materia di fumetti, mentre invece, sul versante cibo, sembrava fare difetto secco allampanato com’era.
Sognava l’America Simone, la venerava addirittura . Qualsiasi cosa arrivasse d’oltre oceano generava in lui un senso d’ammirazione spontaneo e assoluto. Ora fa l’idraulico ho sentito dire, e, cosa peggiore, non si è mosso di un centimetro in ventidue anni; altro che stelle e strisce. Abita ancora lì nella casa dei suoi. I fumetti li scrivono gli altri, la vita invece succede proprio a noi, e, di solito, ci capita un po’ come vuole lei.
<<Ce n’hai messo di tempo cazzo>> mi disse subito, tanto per chiarire le parti appena giunsi ai piedi dell’enorme statua posta al centro della piazza <<Sto morendo di fame>>
<<Scusa. Dovevo aspettare che tornasse mio padre. Non potevo venire prima>> dissi allargando le braccia
<<Si ma… >> non terminò la frase. Rimase invece a osservare l’enorme grumo di saliva che dopo aver fatto dondolare a lungo dalle labbra, lasciò cadere vicinissimo ai miei piedi <<Va beh, dai sali>>
<<Ma come faccio? Son mica buono a scalare io . Credevo rimanessimo giù>> dissi con la testa quasi completamente rivolta in alto. Era in qualche maniera riuscito ad arrampicarsi su una spalla di Savonarola , che, con aria severa sembrava guardare proprio me e ammonirmi a non provarci neanche <<Cazzo Miche! Sei proprio un frocetto>> disse scoppiando a ridere << come credi che sia salito io?>> rispose iniziando l’incubazione di un altro proiettile di saliva
<<da lì?>> chiesi indicando la tunica del religioso che in prossimità del terreno s’increspava creando una specie di scalino <<hm..hm>> rispose muovendo su e giù la testa, facendo oscillare avanti e indietro l’enorme goccia biancastra
La busta con i panini m’impacciava i movimenti. Simone se ne rese conto prima di me <<Tiramela>> disse dopo aver sganciato, allungando le braccia <<Così se ti rompi l’osso del collo almeno io ho da mangiare>> sussurrò come per non farsi sentire, con la solita faccia indecisa tra ridere o restare seria . La piazza a parte noi era completamente deserta, ma insomma, certe cose si dicono meglio sottovoce, suppongo.
Presi alla lettera il consiglio. Un po’ perché quella di sfamare il prossimo era considerata una vera e propria missione in casa mia, una cosa che nessuno aveva mai preso alla leggera. E poi perché effettivamente una volta liberatomi del fardello mi sarebbe stato più semplice tentare la scalata. <<Hai portato i fumetti?>> chiesi sorprendendomi a sussurrare anch’io
<<Si>> disse sventolandoli <<Guarda qua. Appena arrivati da New York>>
<<Credevo venissero dalla California>>
<<In California non sono capaci di fare fumetti, cretino! C’è troppo sole laggiù . Questa roba ha bisogno della pioggia.> disse torcendo le labbra disgustato <<Dai, tira questa cazzo di busta>> Servirono ben sei tentativi, per ognuno dei quali Simone coniò in mio onore nuove e simpatiche offese. Alla fine la busta rimase in qualche modo impigliata al dito accusatore di Savonarola, e il mio amico si allungò appena il necessario per afferrarla. Adesso aveva tutto lui: Cibo, fumetti, e vista privilegiata.
<<togliti le scarpe, fai più presa>> disse col tono vuoto e monotono di uno scalatore professionista scocciato, alle prese con un dilettante. E in effetti, una volta tolte le scarpe la cosa si rivelò abbastanza semplice. I piedi sembravano come appiccicarsi al marmo, che, a torto, avevo invece sempre considerato estremamente scivoloso.
<<… non c’è da bere! Moriremo strozzati >> fu il suo benvenuto, quando, dopo un ultimo sforzo, riuscii a raggiungere la vetta e a mettermi seduto sull’altra spalla del frate. <<eh… >> risposi ansimando. Mi guardò sospirando profondamente, poi scosse la testa deluso.
Rimanemmo a lungo in silenzio, a fissare gli alberi di fronte. Chi conosceva Simone sapeva che spesso si assentava, attraversava una barriera invisibile ed entrava nel suo posticino privato . Si metteva a fissare un punto da qualche parte, e se ne andava. Si doveva aspettare che tornasse, semplicemente.
<<che lavoro fa tuo padre?>> chiese dopo aver scosso leggermente il capo, come chi si sveglia da un pisolino involontario.
<<Fornaio>> risposi, provando la solita strana sensazione d’imbarazzo. Annuì pensieroso e poi tornò a fissare gli alberi . Cercai qualcosa da dire prima che mi lasciasse di nuovo <<il tuo invece?>> chiesi << che fa?>>
<<Boh, faceva il muratore ultimamente… ora non so>> disse facendo nuovamente quel verso con la bocca<<Non lo vedo mai. Meglio così>> Si mise a sfogliare i fumetti e ne scelse uno <<Oh! Questo è una bomba>> disse passandomelo <<L’ho letto in dieci minuti oggi>>
<<Ma non si dovrebbe già vedere qualcosa?>> domandai indicando la luna perfettamente tonda e ancora luminosissima
<<Hanno detto alle dieci e diciassette alla Tv. Mancano ancora ventidue minuti>> rispose dopo aver controllato l’orologio
<<Al mio ne mancano diciannove>>
<<Fa vedere>>
Allungai il braccio passandolo davanti alla faccia del frate, sentii che mi afferrava il polso <<Ma questo orologio è uno schifo>> esclamò ridendo <<ma perché vai in giro con quella porcheria? Guarda questo>> disse allungando il braccio verso di me <<E’ Belga>> disse infondendo una certa sacralità al tono di voce < Dopo gli Svizzeri sono i migliori a fare gli orologi>> In effetti era davvero un bell’orologio <<chi te l’ha regalato?>> chiesi
<<niente… >> rispose <<… non ricordo>> e se ne partì per un altro viaggio che mi augurai fosse breve.
<<Mio padre dice che inizia con un’ombra>> dissi dopo un po’, per farmi compagnia più che altro <<Cioè, dice che si vede prima un po’ sfuocata la luna, prima che inizi a scomparire piano piano, come se la rosicchiasse un topo. Ha detto proprio così, giuro ; un topo>>
<<Eh?>> l’avevo tirato fuori da chissà dove <<Ah. Un topo. Si si , tuo padre ha ragione. Confermo>>
<<Ma perché scusa tu l’hai già vista?
<<No>>rispose tranquillamente
<<E allora come lo sai?>>
<<Perché tuo padre mi ha sempre spirato fiducia. Mi sembra uno in gamba>> Non aggiunsi nulla. Solo mi pareva strano che le sue convinzioni astronomiche si basassero sulla parola di un panettiere, ecco.
<<A che ora devi tornare tu?>>chiesi << io posso rimanere fino alle undici e mezza. Mi hanno dato zero flessibilità. “ Le eclissi non è che ritardano o cosa” dissi facendo la caricatura della voce di mia madre “se gli scienziati hanno detto le dieci e diciassette sono le dieci e diciassette. Quindi torni alle undici e mezza. E ti va di lusso. Fine della discussione” >>
<<Io posso fare tardi. Frega nulla a nessuno in casa mia>> rispose sputando giù <<Dai leggi, stai zitto>> Rimanemmo un po’ in silenzio. Ogni tanto alzavo la testa e guardavo la luna. Mi sembrava strano che tra poco sarebbe scomparsa, nascosta al sole dalla terra. Una cosa talmente grande che faceva male pensarci, eppure stava per succedere e noi c’eravamo!
A un certo punto dietro un albero di fronte a noi mi parve di vedere un movimento. <<Simo>>
<<Si? Che c’è?>>
<<Ho visto muovere dietro quell’albero. C’è qualcuno >>
<<Cazzo dici… ?>> disse alzando la testa dal fumetto
<<Ti giuro. Stavo per guar ECCO VISTO?>> urlai indicando la testa sporgente dietro il tronco di un platano
<<… si>> rispose con un filo di voce.
<<Ma… che è? Viene verso di noi. E’ lui!>>urlai strozzando la voce <<E’ lo straccione>> dissi agitando il dito in direzione dell’albero <<Quello che gira sempre... L’ho visto anche prima venendo qui>> dissi ridendo, ma poi mi fermai. Il mio amico aveva messo su una faccia così bianca da fare concorrenza alla statua. Pietrificato appunto. << Sputagli!>> urlai ridendo <<Dai Simo! Io non ci arrivo>> Niente. Fissava quella sottospecie di essere umano senza muovere un muscolo. <<Tiragli un panino, magari se ne va>> Adesso il barbone era ben visibile in mezzo al giardinetto subito di fronte alla statua .
Nella penombra, appena illuminato dalla luce del satellite che qua e là riusciva a bucare la fitta coltre di rami, quello che una volta era stato senz’altro un uomo, spiccava in tutta la sua misera essenza.
E intanto però adesso era successa una cosa davvero strana. Lui e il mio amico Simone si fissavano. Giuro che si fissavano. Sembravano aver attraversato insieme una di quelle pareti invisibili che Simone era solito attraversare da solo, ed erano come entrati insieme a far parte di uno di quegli universi paralleli nei quali io non riuscivo mai a intrufolarmi.
Poi d’improvviso, come sempre , Simone si riebbe <<Sparisci!>> urlò ridendo in direzione del barbone << Vai via! Via, sciò!>> urlava e intanto rideva, ma in modo rabbioso, innaturale. Il barbone allora, lentamente come era comparso, fedele alla sua personalissima eclissi esistenziale, prese a scomparire piano piano dietro al tronco dell’albero << Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo! Via! VIA! >> continuava a urlare Simone. Aveva gli occhi iniettati di sangue, nella sua voce c’era più disperazione che divertimento però . In più, il mento aveva preso a tremargli, come fosse stato sul punto di piangere. Continuò a urlare per non so quanto tempo dopo che il barbone se ne fu andato.
Io non sapevo cosa fare ero senza parole, e, ammettiamolo, un po’ impaurito . Mi sembrava una reazione esagerata, sproporzionata, rimasi in silenzio facendomi piccolo dietro l’enorme testa della statua. Magari si dimentica che sono qui, pensai.
<<Io vado>> disse poco dopo raccogliendo in fretta i fumetti tutto agitato<<Quello te lo lascio. Me lo rendi domani a scuola>> E l’eclissi? Pensai <<Ma.. l’eclissi?>>
<<M’importa un cazzo dell’eclissi a me. Me ne capiteranno altre cento… stai a vedere!>> Gettò i fumetti giù e scese in meno di un secondo. Lo guardai andarsene, lasciarmi solo in quella notte che avevamo deciso dovesse essere memorabile. Una volta in strada non iniziò a correre come avevo pensato data la fretta con la quale se n’era andato. Prese a camminare a passo lento, con un incedere che mi sembrò subito familiare. Come se quei passi li avessi incontrati già migliaia di volte in vita mia.
Iniziò proprio come aveva detto papà. Un ombra avvolse dapprima la luna rendendola falsa, poco credibile, una specie di enorme bugia . Ero nel bel mezzo di un fenomeno cosmico. Dodici anni di bambino preso tra il sole e la luna. Il pensiero mi fece quasi cadere giù . Poi arrivò il topo, che prese a rosicchiare senza fretta finché non se la mangiò tutta e fu soltanto oscurità intorno a me.
Allora pensai a Simone e provai pena per lui che non aveva voluto osservare uno spettacolo così grandioso. Pensai al barbone e provai pena anche per lui, che adesso, con tutta probabilità, camminava rasente al muro di qualche palazzo spaventato a morte dall’improvvisa scomparsa della sua ombra . Sentii pena anche per il babbo e la mamma, così vecchi, così presi dai loro affanni da risultare ormai immuni a certe gioie.
E pensai anche al povero Savonarola, unico compagno d’avventura rimastomi in quella strana notte. A quali potessero essere stati i suoi ultimi pensieri prima che accendessero il fuoco . Se avesse pensato a dove sarebbe andato a finire di lì a breve , se davvero in cuor suo credesse alla storia del paradiso. Su chi, tra la folla urlante, avesse per ultimo posato gli occhi, prima che si facesse buio.
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