sabato 30 novembre 2013
Come autunno sotto i miei piedi
L’ultima volta che lo vidi, ricordo, indossava una maglietta gialla con una citazione in tedesco stampata sopra. Aveva i capelli più lunghi del solito e mi salutò abbracciandomi con la consueta euforia fisica alla quale io non riuscivo mai a tenere testa. Mi presentò una bella ragazza bionda che stava seduta sul sedile posteriore di una moto gigantesca, piena di ...bauletti e sacche. Io guardavo la moto e intanto cercavo di ripetere mentalmente il nome della ragazza che mi pareva di non aver neanche sentito tanto ero rimasto colpito da quella bella luce allegra, da vacanza prolungata, che grondava dagli occhi del mio amico.
<<Andiamo su>> disse facendo volare in aria la mano, con un gesto pigro di chi è abituato a farne di tutti i colori. Un gesto rituale per quelli come lui, condannati all’avventura, che io valutai crudelmente ricercato, esibito con ferocia disinvolta nei confronti di uno che l’avventura invece era abituato a viverla soltanto attraverso i racconti degli altri.
<<Ma su dove?>> risposi
<<Ma che ne so. Andiamo su, in Europa, da qualche parte. Poi si vedrà>>
<<Ah>> feci io pensando per non so quale motivo a mia madre e alla terrazza piena di gerani.
<<Andrai anche a Est?>>
<<E chi lo sa>> rispose con una scrollata di spalle. Poi incrociò lo sguardo della ragazza, che pensando si parlasse di lei sorrise <<Ma sì, vedrai che andiamo anche a est>>.
<<Non sono mai andato a est>> risposi
<<Ti mando una cartolina magari. Il forno ce l’hai sempre lì tanto, vero?>>.
<<Sì, sì. Sempre lì>> risposi mentre disegnavo un semicerchio con la punta della scarpa sul marciapiede.
Sospirò a fondo guardandomi, poi mi mollò una pacca sulla spalla <<Be’, ci si becca allora>>.
<<Sì. Stammi bene grande>> Lo salutai con foga, quasi volessi lanciargli dietro un pezzetto di me che s’infilasse in una di quelle sacche per farlo andare con loro in quella meravigliosa avventura. Salutai con un cenno della mano anche la ragazza, ma non se ne accorse. Li guardai allontanarsi, finché non scomparvero in fondo alla via, diretti su, oppure a est, chissà dove.
La notizia della sua morte mi giunse qualche anno più tardi. Era morto facendo una di quelle cose che io provavo paura soltanto a nominare. Pensai che in fondo se n’era andato facendo quello che aveva sempre sognato di fare, qualcosa di avventuroso, che fosse morto felice. Ma poi pensai che no, non era possibile, e che anzi doveva avere avuto una paura tremenda là sotto, sul fondo del mare, mentre non riusciva a tornare su. Pensai alla ragazza bionda, immobile sugli scogli, osservare con crescente terrore le ombre nell’acqua, aspettando di veder risalire il suo ragazzo, mentre dolorose le si facevano via via sempre più nitide nella mente le immagini dell’ultimo Natale passato tutti insieme, con l’enorme tavola piazzata proprio davanti al caminetto del salotto, l’atmosfera dolce e calda data dalla neve che scendeva copiosa fuori dalle finestre, con i parenti arrivati da tutta la Germania, e i genitori, che si erano tanto affezionati a quel simpatico ragazzo Italiano. “No, non può succederci nulla. Ci vogliono tutti così bene” avrà pensato di sicuro.
L’ho ripensato e addirittura sognato spesso nel corso degli anni. Un po’ perché in lui avevo colto e assaporato quell’aroma coraggioso, tipico delle persone dedite all’avventura, che mette radici profonde e involontarie negli animi semplici e stanziali, delle persone come me, così poco dotate d’inventiva. Ma soprattutto perché, l’avevo visto mettere in pratica con assoluta risolutezza un po’ tutti i suoi sogni, anche quelli più ingenui, che si ha il coraggio di confessare solo quando si è ancora giovani.
Nel sogno lo vedevo sempre in fondo a una strada, camminare con quell’andatura strana e ciondolante, le gambe sempre un po’ più avanti del busto, come se il corpo fosse combattuto, tra la metà inferiore che spingeva per ripartire e quella superiore ancora un po’ indecisa sul da fare. Io correvo, e correvo, e intanto lo chiamavo, ma poi, quando arrivavo in fondo alla via svoltavo e lui non c’era già più. Scomparso.
Ma l’altra notte il sogno è stato diverso. La moto invece di andare avanti veniva indietro. L’aria era piena dell’odore ferroso dell’autunno. Tuonava e faceva freddo, ma lui indossava ancora quella maglietta a mezze maniche gialla.
<<Sei ancora qui>> mi ha detto
<<E tu? Ci sei andato poi a est?>>
<<Sì, ci sono stato… ma ti dirò, in fondo non si sta male neanche qui. Alla fine uno deve pur fermarsi da qualche parte no?>>.
<<Ma io, ci andrò mai secondo te?>>
Si è voltato dall’altra parte, lo sguardo tristemente interrogativo perlustrava il viale alberato in lontananza, come se cercasse qualcosa di carino da dirmi. Ma poi, Quando è tornato a guardarmi sorrideva, aveva di nuovo quella bella luce negli occhi che sprigionava allegria e finiva irrimediabilmente, ogni volta, per inzuppare tutta la persona di una frizzante e irresistibile atmosfera da campeggio. <<Eh, può darsi. Chissà>> mi ha detto <<Ma se ci vai, portati qualcuno. Un amico, una ragazza, ma non andarci solo. Nessuno ti crederebbe mai se no. Servirà qualcuno che racconti la tua storia un giorno>>.
Nel sogno guardo la moto allontanarsi, prima di riprendere il cammino. Mi tappo le orecchie e urlo a squarciagola per non sentir passare la vita, e fingo di non riconoscere, nella fioca luce del mattino che sa già di pomeriggio, la pesantezza degli anni che scricchiolano, come autunno sotto i miei piedi.
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