mercoledì 26 novembre 2014

La veggente








«Dicono che riesce a leggerti il futuro senza che tu apra bocca praticamente. Basta che ti guardi un attimo e ha fatto»

«Ma finiscila per favore» rispose lui «Ti pare possibile? Eppure non sei come le tue amiche! Dai Emma, per l’amor del cielo»

«Senti Frank, tu la conosci Meredith no? Ti sembra una che le spara grosse? Non direi no? »

«Io non ho nessuna intenzione…»

«Invece ci andrai perché dobbiamo assolutamente fare qualcosa entro i prossimi tre mesi e abbiamo bisogno di pianificare alla perfezione ogni mossa»

«E quindi adesso ci affidiamo alla magia? È così che d’ora in poi decideremo come fare le cose? »

«No Frank, soltanto questa volta. Cristo, hai visto l’estratto conto di questo mese no? Se accetti quel trasferimento prendi una decisione cruciale.  Inoltre…» Emma rimase un po’ con lo sguardo posato sul tappeto come se fosse sul punto di dire qualcosa di davvero importante «Be’, io dico che dovresti proprio andarci, sai? » concluse invece, succhiandosi in dentro le guance e corrugando le labbra senza aggiungere altro.

    La primavera aveva acceso i colori tutto intorno la statale 89. L’ultima volta che l’aveva percorsa era stato a Novembre, pioveva e faceva freddo. La scansione del tempo per lui ed Emma si era interrotta a Gennaio, quando avevano ricevuto la lettera dell’azienda nella quale si enfatizzavano i vantaggi legati a un suo eventuale trasferimento a Portland; scansione che poi si era sciolta lentamente in una densa, impenetrabile, cortina di pensieri e preoccupazioni che avevano tenuto compagnia a lui e sua moglie fino ad oggi: cinque mesi sospesi in una bolla invisibile nella quale avevano galleggiato in compagnia di bollette scadute, falsi sorrisetti rassicuranti e silenziosi abbracci accompagnati da profondi sospiri,  molto più frequenti e lunghi del solito.

    La casa della maga – in realtà il termine esatto era “veggente” persona che “vede” aveva trovato su internet - si trovava fuori città di un buon quindici chilometri. Per raggiungerla dovette lasciare la statale 89 all’altezza del bivio per Irchenville e poi arrampicarsi su per la route 16 finché il navigatore non gli disse che era arrivato. Era verde, disposta su due piani, con quattro finestre sopra e due sotto. Il giardino intorno era perfettamente curato, e a intervalli regolari zampilli d’acqua venivano sparati per aria dagli irrigatori temporizzati nascosti sottoterra. Aveva un gran mal di testa, forse avrebbe fatto bene a scolarsi per intero  il thermos di caffè che Emma gli aveva preparato quella mattina, prima di suonare il campanello.

«Non lo voglio Emma» le aveva detto allontanandolo da sé con una mano.

Ma lei aveva piagnucolato «Prendilo per favore, magari ti viene sonno durante il viaggio»

«Viaggio» aveva ripetuto lui storpiando di proposito la parola «sono appena quindici minuti d’auto» alla fine l’aveva preso, giusto per farla contenta, con l’intenzione di svuotarne a terra la metà prima di rientrare.

    Aprì la portiera e scese dall’auto. L’odore dell’erba tagliata di fresco non bastò a mutare il suo stato d’animo e percorse i pochi passi che lo separavano dal campanello con addosso una vaga e indefinita sensazione di malessere generalizzato.  Sorrise davanti alla targhetta “Morg Hana” domandandosi in che razza di situazione si stava infilando, ma poi pensò a  Emma che ci teneva così tanto e suonò.

    Quando uscì, ventisette minuti più tardi, il mal di testa era scomparso, per lasciare il posto a una sensazione che non era di sgomento come avrebbe dovuto essere date le circostanze, ma di profonda tranquillità. Rimase a lungo sulla soglia con lo sguardo puntato sul grande prato davanti alla casa della maga riempiendosi i polmoni con quel buon odore di natura recisa, fresco, friabile, affettuoso come la mano di suo padre che gli passava sulla testa appena avevano finito di tagliare insieme  l’erba nel loro giardino e restavano immobili a osservare soddisfatti l’opera appena compiuta. Lanciò sovrappensiero le chiavi dell’auto in aria, una, due, tre volte “Ironico davvero… “” pensò, poi prese un lungo respiro e si  avviò verso l’automobile.

    Il cielo, azzurro come non mai,  gli fece pensare alle cartoline che suo fratello inviava loro  due volte l’anno dalla Florida, piene di gente sana e spiagge che si allungavano a  perdita d’occhio. Il calore del sole gli carezzava tutta la parte sinistra del corpo attraverso il finestrino dell’auto mentre scendeva la route 16 per andare a imboccare di nuovo la statale 89 che l’avrebbe portato a casa in meno di quindici minuti.  La mano senza preavviso partì verso il vano porta CD,  e in men che non si dica si ritrovò a cantare a squarciagola le vecchie canzoni dell’adolescenza, battendo il ritmo con i palmi delle mani sul volante. Era un vero peccato che a sua moglie quelle canzoni non fossero mai piaciute, che preferisse il silenzio quando erano in auto. In breve l’auto si popolò di facce e voci, risate e urla di compagni d’università con i quali aveva percorso insieme un breve e stupendo tratto di vita spensierata, che però aveva sempre tenuto nascosta a Emma; come se lei, una volta messa a conoscenza del giardino segreto dove lui conservava ancora intatte le poche emozioni passate, avesse il potere di mandarle in frantumi con uno dei suoi urletti striduli o con una di quelle risatine sciocche e ammonitorie che gli riversava addosso ogni volta che lui cercava di fare di testa sua.   

    Si accorse che stava rallentando dopo aver letto il cartello che indicava 1 chilometro al bivio per Irchenville. A quella velocità sarebbe arrivato a casa in meno di sei, sette minuti, mentre avrebbe voluto poter continuare a guidare per sempre, stando ben attendo a non infrangere con il minimo movimento quello stato di beatitudine che si era creato all’interno dell’abitacolo; soltanto lui e i suoi vecchi amici e i cd: avanti, per sempre!  Tuttavia giunto al bivio dovette fermarsi per forza; si accorse allora che, seppur ancora lontana, a est, un’ombra scura aveva già iniziato a mordere il cielo sbriciolandolo in tonalità di azzurro sempre più denso via via che scendevano giù fino a fondersi con la terra da qualche parte dietro le colline. Una lama fredda gli si posò sul braccio là dove fino a pochi istanti prima indugiava sornione il sole quando una nuvola solitaria l’oscurò all’improvviso. Subito dopo aver imboccato la statale diretto verso casa spense lo stereo e percorse gli ultimi chilometri immerso in un silenzio siderale.

Emma l’aspettava sulla porta «Dio mio Frank! Iniziavo a preoccuparmi. Quanto ti ci è voluto? Sei stato via quasi due ore»

Controllò  l’orologio «Un’ora e trentasette per la precisione»

«Sì, ma insomma. Avevi detto quindici minuti ad andare e… ma non l’hai neanche toccato? » chiese sciaguattandogli nervosamente il thermos del caffè davanti agli occhi «Ho sentito che sta arrivando un brutto temporale e iniziavo a preoccuparmi che… dai vieni entra, vieni Frank racconta» disse prendendolo per una mano «Racconta avanti, com’era? Mi hanno detto che è anche bella, è vero? Hey… non è che hai fatto tardi perché… ma che hai? Perché sei così silenzioso? »

«Povera Emma» disse lui accarezzandole la guancia col dorso della mano «povera la mia bambina» ripeté piano «tutto il nostro preoccuparci, per tutto questo tempo…»

«Ma che dici eh? Che hai? Dio mio Frank, mi fai paura così»

«Siediti amore mio. Siediti per l’amor del cielo» disse indicandole il divano, e attese che lei lo facesse prima di iniziare a raccontare.

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