L’altro
giorno, il più grande dei miei ragazzi, entra nella mia stanza e fa: «La nostra linea
ADSL fa schifo! Ci vogliono più di quattro secondi per scaricare una canzone.
L’ho calcolato, e sto parlando di una canzone che pesa poco eh… sui 3 mega. In
America bastano 0,6 secondi per scaricare la stessa canzone»
«E io che
ci posso fare scusa? » ho risposto «È la fibra ottica della Telecom, credo che tutti
i gestori usino quella»
«Sì ma ti
rendi conto? 0,6 contro 4 secondi. Anche quando gioco Online arrivo sempre un
mezzo secondo più tardi. Mi ammazzano tutti! Il mio ping va alle stelle e poi…»
E mentre
questo povero, piccolo, cucciolotto indifeso, così brutalmente esposto a tutti
i problemi del mondo elencava una serie impressionante di buoni motivi per
cambiare gestore telefonico, a me è venuta in mente una cosa. Così, come sempre
più spesso mi accade con l’andare degli anni, una di quelle bollicine
contenenti le emozioni più profonde che via via mi hanno toccato nel corso
degli anni, si è staccata dal fondo e ha preso a salire su, sempre più su, fino
a ridivenire il ricordo concreto di una settimana spettacolare.
Avevo tredici anni ed ero un ragazzetto
normalissimo. Un po’ più basso della media ma in compenso dotato di uno
smisurato amore per la musica. Non possedevo dischi miei perché fino a quel
momento quelli di mia sorella più grande mi erano bastati, ma già da un pezzo sentivo
che il momento per spiegare le ali e spiccare il volo verso l’autonomia
musicale stava per arrivare.
Quando esposi alla mamma il piano lei non
diede impressione di essere né entusiasta né contrariata, mi chiese soltanto di
quanti soldi avevo bisogno; il suo pragmatismo smontò un po’ la vertigine di
euforia sulla quale si erano arrampicate le mie emozioni, ma con calma,
ripensandoci, lo considerai un riflesso incondizionato degli adulti quello di
non provare più eccitazione per nulla. L’unica sua raccomandazione fu di
andarci il sabato pomeriggio perché non avevo scuola. Era appena Martedì.
Passai il resto della settimana immerso in
uno strano liquido viscoso, da dentro il quale mi giungevano ovattate le parole
dei professori, le risate degli amici, perfino i programmi televisivi. Tutte le
cose che solitamente per me erano meritevoli d’attenzione, non avevano più
gusto, avevano perso tutto il peso e la loro sostanza. La mia mente era
occupata da un unico pensiero: sopravvivere fino al sabato e andare in
centro a comprare quell’album, il primo della mia vita.
E finalmente il sabato arrivò davvero. Ricordo
che quella mattina, a scuola, passai tra le lezioni senza praticamente toccare
terra, avvolto in un’euforia assurda che mi solleticava di continuo la nuca.
Chiacchierai con tutti, svolsi alla perfezione e senza fatica ogni compito che mi
affibbiarono, e durante la ricreazione segnai anche un paio di goal nel
cortiletto asfaltato dove giocavamo a pallone e ci graffiavamo di continuo le
ginocchia senza lamentarci. A pranzo scambiai addirittura qualche parola con le
mie sorelle; insomma, ero al settimo cielo, e gli altri sei non avevo neanche
fatto in tempo a vederli tanto sgusciavo via leggero.
E poi venne l’ora fatidica, quella della
partenza. La mamma mi mise in mano 5000 Lire e disse che voleva il resto;
quindi, calcolando il costo del biglietto dell’autobus e quello dell’album,
sarei dovuto tornare a casa con in tasca non meno di 1000 Lire. La vita mi
sorrideva. Credo che potrei ricordare, se volessi, alla perfezione ogni istante
successivo: la camminata fino alla fermata dell’autobus, la corsa(della quale
benedissi ogni istante poiché grazie al bus a due piani mi trovavo a un’altezza
diversa rispetto ai comuni mortali che smoccolavano e suonavano il clacson
laggiù in basso, e quell’altitudine ovviamente rispecchiava alla perfezione
quella del mio stato d’animo) lunga e rumorosa: la camminata successiva per le
vie principali del centro, con le gambe che via via prendevano velocità senza
che io lo volessi, ma che tuttavia non riuscivo a tenere a freno. Le luci in
lontananza, l’insegna del negozio, e io che entro col cuore che sembra lì lì
per scoppiarmi nel petto. E poi le dita che sfiorano l’album intrappolato in un lembo di cellophane e
pronto per seguirmi a casa, come il migliore degli amici.
Ricordo il volto adulto e annoiato del
cassiere, che prese in mano il disco e lo rigirò per leggere il prezzo. Non
mostrò nessun interesse per la scelta che avevo fatto, non condivise con me una
strizzatina d’occhio compiacente, o un sorriso complice come invece mi ero
aspettato, anche in quel caso attribuii la sua non-reazione a quell’orribile
vizio che avevano le persone anziane di non emozionarsi davanti a niente. Tutto
doveva essere terribilmente piatto quando si arrivava a quell’età, ma per
fortuna io avevo ancora un bel po’ da fare prima di arrivarci, e ciononostante
provai pena per lui e la sua vita senz’altro noiosa, mentre la mia spumeggiava
di felicità.
Il viaggio di ritorno, la completa
mappatura di ogni centimetro della copertina, l’atmosfera di mistero che usciva
da quella fotografia stampata sul cartone del quale potevo soltanto intuire
l’odore, l’enorme dilemma: scartare adesso oppure aspettare di essere in casa?
La corsa folle a tutta velocità una volta sceso dal bus, e finalmente la mia
cameretta, il mio stereo.
Tolsi con cura il cellophane che riposi
come la reliquia di un Santo sul letto, ben deciso a conservarlo. La copertina
emanava l’odore che mi ero immaginato di fiordi Norvegesi, alture Irlandesi, sconfinate
pianure Americane… E poi la punta della testina che finalmente tocca il vinile,
e poi… e poi… poi qualcosa non andava. L’emozione non si moltiplicava al
quadrato, non demoliva le leggi della fisica conosciuta spandendo la sua luce a
ritroso fino al momento della creazione, anzi, tendeva ad afflosciarsi, come se
quella musica improvvisamente fosse diventata un accessorio, un qualcosa di
troppo “concreto” che con la sua concretezza andava a insudiciare la vera magia
che invece l’aveva preceduta.
Allora compresi, alla tenera età di tredici
anni, che tutta la magia sta nell’attesa che avvolge certi eventi speciali, nei
momenti che li precedono. La vera emozione era filtrata via attraverso una
clessidra che avevo riempito con i miei sogni, con l’aspettativa, con la
spasmodica attesa, sbriciolandosi in sabbia finissima che era scivolata giù,
fino all’ultimo granello, tenendomi compagnia per ben cinque giorni.
«Oh babbo,
ma mi ascolti? 0,6 secondi cazzo! Capito? »
«Sì, ho
capito. Dover aspettare 4 secondi mentre quello la scarica in 0,6 è davvero
terribile» ho risposto, dispiacendomi sinceramente per lui come solo un padre
che certe emozioni le ha provate può fare, quando capisce che la tecnologia ha
vinto l’ennesima battaglia, degradando l’emozione del fattore attesa alla condizione di fastidioso problema della connessione.
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