mercoledì 26 febbraio 2014

Il tempo confonde i tuoi contorni





«Ti spiego» e detto questo se ne partiva con una di quelle palle tediose che non andavano mai da nessuna parte. Di sicuro la persona meno indicata per dare spiegazioni, era capace di tenerti anche mezz’ora lì, nel vano tentativo di mettere insieme un qualche concetto sensato, qualsiasi cosa si potesse definire frutto della logica, per poi finire sempre lì; naufrago in mezzo al mare delle sue stesse parole. Un incapace, ma senza la modestia che almeno si richiede loro. Una nullità piena di boria; ecco cos’era.  Quando Enzo mi chiamò per dirmi che sarei dovuto andare con lui a proporre i nuovi prodotti su a Chiasso gli dissi «Cazzo no. Non puoi mandarmi fin lassù con quello»

«Perché? Poverino dai, è simpatico. Vi fate un bel viaggetto. » rispose con la voce velata dall’ironia

«Non lo sopporto. E’ una testa di cazzo. Mi spiega sempre tutto» sentii che rideva dall’altra parte, anche se cercava di non farsi sentire «Dammi Luca, dai» dissi allora cercando di farla sembrare una supplica  «Almeno lui non dice mai nulla, sembra morto, e se ti guarda lo fa solo per ascoltare»

«Luca è in Ungheria. Senti, Gianni…» iniziò quello che sembrava dover essere un bel discorso conciliatorio ma poi, o perché non si ricordava cosa stava per dire, o perché gliene mancò la voglia lo tagliò subito. «Allora mi raccomando, portatemi almeno tre contratti firmati. Lascia parlare lui allora, se è così bravo a spiegarle le cose» terminò la frase con la voce rotta dal ridere e riattaccò.

Partimmo un venerdì mattina infradiciato da una pioggerella insignificante. In cielo borbottavano in continuazione tuoni senza pretese e l’asfalto, quando il sole riusciva a bucare l’abbraccio di nuvole, risplendeva lucido come l’interno di una conchiglia. Mi sorbii almeno un’ora di musica anonima, che il mio compagno di viaggio sembrava scegliere in base al colore delle auto che ci sorpassavano. Se erano derivazioni  cambiava canale, se invece erano colori primari la radio restava sintonizzata su quella stazione. Ma poi giudicai la mia una valutazione troppo assurda per essere reale. E comunque il giochetto – se di giochetto si trattava - sembrava intrigare il mio collega/autista, e finché se ne stava zitto a modulare le leggi della sua dittatura radiofonica, a me andava benone.

«Lo sai che c’è? » disse a un certo punto abbassando il volume della radio. “Eccoci” pensai… “non siamo neanche a Bologna”

«No. Non lo so che c’è. Dimmelo tu che c’è»

«C’è che sono circondato da giovani. Prima quando mi guardavo intorno vedevo solo vecchi, adesso vedo… » lo interruppi

«Oddio, senti» dissi «Non è che mi parti con una di quelle storie  sul senso della vita, o del perché… »

«No, tranquillo» rispose lui «non fosse mai» aggiunse staccando la mano destra dal volante, sventolandola in aria come per scusarsi.

«No, perché oggi proprio non ce la faccio»

«Gianni, ho detto tranquillo. Vuoi stare zitto fino a Chiasso? Va bene per me. Non dico nulla, tu non dici nulla, ci facciamo questi seicento chilometri in silenzio, ognuno pensa ai fatti suoi, eh? Seicento ad andare e seicento a tornare» Non risposi, per me andava benissimo. Rialzò il volume della radio e io tornai a studiare i fogli promozionali dell’azienda. Gli devo dare atto che ci provò. Riuscì a non aprire bocca per almeno un’altra ora perché quando lo fece c’eravamo lasciati alle spalle da un pezzo Parma.

«Almeno lasciami raccontare che mi è successo sabato sera. Questo lavoro di merda… siamo sempre soli, e per una volta che viaggio insieme a un altro» lasciò la frase in sospeso mettendo su un’espressione un po’ offesa «tu non hai voglia di parlare» terminò. Non dissi nulla, perché tanto sapevo che non si sarebbe fermato.

«Insomma, ero stato a mangiare in quel locale dove fanno Karaoke, no? Dove prima c’era una pompa di benzina. Quello dove poi a una cert’ora si può anche ballare.  SI chiama Garden, o Gardenia, o qualcos’altro. Al buio non si legge bene quell’insegna» fece una breve pausa poi riprese a parlare «ero solo perché… perché, non lo so perché ero solo. A dire il vero mi sto vedendo con una tipa là dentro, ma il nostro rapporto è ancora agli inizi. Ci guardiamo e basta, non ci siamo mai parlati per ora» poi si bloccò e fece un gesto d’irritazione con la mano, come se cercasse di concentrarsi su quello che davvero voleva dirmi, come fosse al corrente  di quel nomignolo “girovago del nulla” che gli avevo affibbiato, per il suo parlare a vanvera e senza costrutto «Sì, ma questo non è quello che volevo raccontare cazzo» io non alzai neanche la testa, continuai a fingere di leggere «insomma, stavo tornando a casa dal Gardered , ok? Guidavo piano sai? Avevo un po’ bevuto, e tutto a un tratto, sul viadotto della colonna, vedo un gatto steso in mezzo alla strada.  Accosto l’auto, era tardi non c’era nessuno in giro, e scendo. Il gatto sembrava proprio morto stecchito, no? Insomma, immobile, con gli occhi aperti. Mi sono chinato sulle ginocchia e ho fatto per toccarlo. Quello che è successo dopo non riesco ancora a spiegarmelo. Il gatto ha fatto un salto per aria e non so come, è volato di sotto. Quanti saranno? Trenta, quaranta metri quel viadotto? Ecco, dimmi tu…» risi dentro di me ma feci finta di nulla. “Queste cose assurde succedono solo a gente come lui” pensai. «Ti rendi conto? »riprese poco dopo «Che gli avrò fatto di male io? Ora me lo sento sulla coscienza. Volevo aiutarlo e invece l’ho ammazzato» Annuii appena come per fargli capire che avevo ascoltato tutto, e che sostanzialmente ero d’accordo con lui sul fatto che non avesse colpe «riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» Aggiunse  guardandomi. Anch’io allora lo guardai, e rimanemmo un po’ così in silenzio; a guardarci.

«Tu mi odi vero Gianni? » disse poi

«Dovrei? » risposi io

«Sì, ma ormai no. Cioè, sono passati quasi nove anni… » disse sempre facendo quel verso con la mano assolutorio «Fu lei cazzo, non io»

«Perché tu dov’eri? »

«Sì, cioè, c’ero, è ovvio, e ti ho già chiesto scusa. Ma fu lei a iniziare ripeto, non io»

«Fermiamoci al prossimo autogrill per favore. Devo andare in bagno» risposi.

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Il parcheggio è ampio, le macchine sono poche. Si chiama “Villa Garden Plaza” si vede che sei anni fa, quando ci venne il mio collega l’insegna aveva diversi neon fuori uso. «Oh, ma che avete combinato» mi disse Enzo quando tornammo da Chiasso porgendomi la mano «Perché? » risposi «E’ andata bene, no? » «Ha dato le dimissioni, se n’è andato» rispose «non mi ha spiegato il perché. Se n’è andato e basta» anche allora non dissi nulla. Feci spallucce.

L’atmosfera all’interno è piuttosto allegra; mi siedo e ordino una birra. A parte una comitiva di bambini alla mia destra, per il resto il locale è prevalentemente occupato da single. Uomini e donne che seguono una metodica di comportamenti inesorabili: si guardano si fiutano si fronteggiano e infine riducono le distanze. Poi capita anche a me. Non è molto bella, ma è giovane e forse spensierata quanto basta. Mi avvicino. Mi presento, si presenta. E’ in compagnia di amici, come lo siamo tutti qui dentro suppongo, ma al momento è sola, chissà dove sono finiti quei burloni. Porta la fede vedo, ma appena si accorge che la sto guardando, con un movimento rapido cela la mano dietro al braccio destro poggiato sul bancone del bar. Parliamo un po’,  io faccio l’avvocato. Poi spingo il piede sull’acceleratore e lei non frena, anzi.  Mentre ci baciamo, uscendo, non riesco a trattenermi e le afferro la mano; quella mano. Quella che di sicuro il marito le avrà sorretto all’altare infilandole l’anello. Non pare accorgersi della soddisfazione che provo mentre le spingo la lingua quasi fino in gola e allo stesso tempo saggio la consistenza di quella promessa d’amore eterno. «Riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» forse anche lei, un giorno, reciterà al marito questa bella frase a effetto, penso soddisfatto.

 

 

 

 

 

 

giovedì 30 gennaio 2014

Istantanee






Il nerd scrive con la testa quasi poggiata sul tavolo. Ogni tanto la solleva, fa un conto con la calcolatrice, poi la riabbassa e riprende a scrivere con grande impegno.
    La ragazzina bionda e bellina siede al tavolo accanto. Capelli tenuti su con un elastico che li strizza fino a formare proprio sulla punta del capo una simpatica fontanella. Un ampio maglione pesante bianco con disegni pixellosi neri di sapore anni ottanta: Wham, Videomusic, Spandau. Un paio di fuseaux neri e scarpe da ginnastica bianche Nike, con logo anch’esso bianco annunciato appena dalla finitura solo un po’ più scura della cucitura. Doveroso abbigliamento informale da biblioteca con il quale la ragazza cerca d’immobilizzare o perlomeno ingabbiare la civetteria, alla quale però intanto ha concesso asilo nella penna e nell’evidenziatore che sono di un giallo sgargiante. 
    L’altra, quella brutta, le siede di fronte dall’altra parte del tavolo. Viso piatto, sopracciglia un po’ troppo alte, labbra sottili di chi soffre in continuazione. Sembra la fotografia di un’altra appiccicata in fretta e furia sulla testa sbagliata, oppure, per chi ama gli animali, l’evoluzione di un Pechinese. Brusca nel fare e nel sedere. Non si da neanche la pena di accavallare una gamba; tiene le ginocchia unite e i piedi ben piantati per terra. Un golfino di lana beige aperto sopra un lupetto appena un po’ più scuro. Jeans blu, scarpe nere.
     A un certo punto sollevando gli occhi dal libro, si rivolge alla biondina e le sussurra qualcosa.  Quella, come se non aspettasse altro da sfogo a tutta la vitalità domata fino a quel momento e non potendo urlare esplode in un’esclamazione muta carica di stupore «Ma dai? » Sembrano gridare gli occhi . «Ma davvero? » la ragazza brutta prosegue nella narrazione senza mostrare neanche un briciolo della gioia ed emozione che invece scuotono l’altra «No! Non ci credo! » strillano gli occhi della biondina mentre continua ad ascoltare e a fare facce; ora incredule ora estasiate, ora sorprese ora meravigliate.  «Dimmi! Dimmi ancora» brama agitatissima con un allegro rossore nel viso.
    Non riesco a capire se quello non è altro che un sofisticato sistema di contrappesi che la ragazza bellina mette in pratica per cercare di limare lo squilibrio delle forze in campo; indecisa tra la cortesia che deve all’amica che così brutta deve per forza aver bisogno di costante sostegno morale, o un banalissimo reale interesse per le cose che dice.  Intanto però pensa bene di retribuirla, incensandola di un’attenzione esagerata, così da poterla sollevare dalla pozza d’acqua stagnante nella quale di sicuro pensa che passi le giornate fino a portarsela proprio davanti agli occhi, nei quali sa, potrà di nuovo specchiarsi e vedersi ancora bella come non mai.
    Il nerd solleva la testa. Ha una ferita nel cuore che non si richiude. Cerca di rimpinzarlo di numeri ed equazioni ma gli cade tutto in terra e la mente poi torna subito là. Sotto quella finestra. Dove prima, senza coraggio per fare altro, di tanto in tanto si appostava di nascosto anche solo per vedere il suo amore passarci davanti e poi andarsene felice, con un’istantanea rubata di lei sorridente, pensierosa, arrabbiata, oppure sognante. Ah, cosa non avrebbe dato per potersi infilare dentro di uno di quei sogni, magari anche solo come comparsa, o da spettatore a un suo momento felice soltanto per vederla ridere e buttare indietro la testa come la vedeva fare ogni volta che qualcosa la divertiva. Ma sarebbe stato impossibile, lei conosceva appena la sua faccia, e sebbene lui s’ingegnasse durante gli appostamenti per sfruttare le innumerevoli possibilità offerte dall’energia cosmica e farle arrivare plichi ricolmi di bei pensieri e amore, lei non aveva mai dato cenno di percepire la sua presenza sotto la finestra, e cosa peggiore, neanche lo salutava incrociandolo per strada, lasciandolo tramortito con il doloroso compito di svolgere l’ennesima eutanasia di un sorriso.  Non sapeva nulla del suo amore cresciuto tra le ombre della sera, tra le nebbie impenetrabili dell’autunno, tra le gelide nevicate dell’inverno e poi morto in primavera di fronte a una serranda chiusa e due vasi di gerani appassiti, quando il padre di lei era stato costretto ad accettare quel trasferimento in Emilia e se n’erano andati senza neanche avvertirlo. Ma avvertire chi? Che diritti poteva accampare un perfetto sconosciuto?  Riabbassa la testa e riprende a scrivere cercando rifugio nella rassicurante perfezione dei numeri.
    Ci sono tre ragazzi sono seduti al tavolo accanto al mio, tutti giovanissimi avranno sì e no diciotto anni e in una pausa di studio hanno piazzato un Iphone al centro del tavolo. A turno sembra stiano facendo un gioco di dadi o qualcosa che comunque da qui posso soltanto intuire. Dei tre quello con la barbetta sembra essere il più sveglio. E' sicuramente il più interessante, ha un qualche segreto custodito gelosamente in fondo all'animo; forse vuole diventare dottore o magari pilota d'aerei, chissà?  E ce la farà, perché “il mondo è di chi nasce per conquistarlo, e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione” .(cit.)
Dall'altra parte della stanza intanto la biondina fissa da un bel po' incuriosita con occhi di cerbiatta il ragazzo con la barbetta, che ignaro gioca beato e detta le regole del gioco ai suoi amici già assoggettati al suo carisma. Ora però il barbetta ha un problema.  Si accorge della ragazza bellina bellina che lo osserva e improvvisamente non gli vengono più quei bei gesti armoniosi  di prima. Anche le leggi della sua dittatura sembrano meno giuste alle orecchie degli amici che ora contestano qua e là. Non riesce a fare a meno  di controllare i gesti cercando di apparire naturale e sincero come prima. E' bastato davvero poco per far crollare tutte le sue certezze. Me ne vado felice, con la consapevolezza che tutto è identico a quando anch'io ero poco più che diciottenne; forse un po' spaesato, ma col cuore sempre all'erta.


martedì 14 gennaio 2014

Ferraglie















«E’ così allora? Mi lasci così, eh? Un bacio sulla guancia, un abbraccio veloce…»
«Un abbraccio veloce che però è figlio di un lungo addio cara».
«Ma vaffanculo te e la tua poesia. Sai che me ne faccio della tua poesia adesso? Un cazzo me ne faccio».
«Questo è sempre stato il tuo problema più grande. Non sai gestire le emozioni».
«Ah, io non so gestire le emozioni, eh?»
«eh?» fa lui, invitandola a proseguire sollevando le sopracciglia e scuotendo la testa divertito, come farebbe un adulto davanti a un bimbo che cerca di spiegare un concetto troppo complicato.
«eh…»
«Finita lì?» incalza lui
«Oh, vaffanculo per l’amor di Dio».
«Io posso anche andarmene affanculo, ma tu un giorno mi ringrazierai».
«Ah si? E per che cosa, eh? Per cosa ti ringrazierò, sentiamo»
L’altoparlante annuncia l’arrivo di un locale, un uomo passa vicino ai due tenendo per mano un bambino.
«Perché non ci sarò più quando avrai bisogno di me».
«Ah! Questa sì! Questa me la scrivo. Giuro su Dio che me la scrivo. Le batte tutte. Adesso sento se mi fanno salire lassù e me la lasciano dire al microfono. Un figurone ti faccio fare brutto stronzo. Cinque anni cazzo… cinque anni»
«Ci guardano tutti» osserva lui divertito
«Sai che me ne frega. Non so neanche dove andare. Che faccio quando arrivo là? »
«Ti stanno aspettando»
«Chi? Chi mi aspetta?»
«Mi pare Giulia. O forse Antonietta. Bah, non ricordo»
«Sì… no. Perfetto orario. No, non ti sento parla più forte. Sì, ancora a Firenze…»
«Ah, non ricordi eh?»
«Ma la mamma è già arrivata
 Da sotto il treno 107 in arrivo da Empoli esce un rumore tremendo quando i freni agguantano l’acciaio. A lei è sempre piaciuto l’odore dei treni che arrivano, mentre quelli che partono  - le piace ripetere in giro assumendo un’aria pensierosa  - non sanno di niente.
 «Boh… quindici minuti pare.  Sì, sì. Avviso quando…»
«Non lo sai vero? Oh, guardami cazzo!»
«Non me lo ricordo va bene? Qualcuno c’è di sicuro».
«Ah! Neanche a mentire sei più buono. Ti ricordi in che condizioni eri cinque anni fa? Eh? Ti ricordi come stavi quando ti ho raccattato di terra? »
«Non hanno fatto un bel lavoro con quest’albero non trovi? L’hanno scorso c’erano più luci, era più… sapeva più di Natale, no? »
«Non rispondi eh? Fanno presto quelli come te. Sei come gli alieni di quel film Americano. Trovi un pianetino, lo prosciughi, gli prendi tutte le risorse e poi vai avanti; passi ad altro».
«Ecco perché dico che mi ringrazierai. Ti faccio un piacere che credi? Una ragazza bella e intelligente come te che spreca tempo…»
«Che vuoi vendermi la storiella del “lo faccio per il tuo bene. Non ti merito. ”?  Prendiamo un caffè che muoio di sonno».
«Sei una tale edonista»
«Che vuol dire? Che cazzo significa? »
«Non lo so. L’ho letta ieri sera in quel libro.  Mi andava di usarla, è una bella parola».
«Devo preoccuparmi? Sei strano»
«Al contrario cara» dice lui riempiendosi il naso con l’odore dell’abete nel quale si sono condensati i volti felici dei genitori una sera di tanti anni addietro «al contrario».
«Oh, Dio. Stai di nuovo male vero? Ascolta, lasciami rimanere, ti aiuto di nuovo, io…».
«E’ il tuo, senti? » sorride lui indicando con la mano la voce dell’annunciatore alle loro spalle.
«Ho tempo Luca, posso aspettare altri cinque anni. Per favore non…»
«C’è un tempo per tutto fiorellino. C’è un tempo per tutto».
«Ma perché mi chiami ancora così se poi mi mandi via? Dai mangiamo qualcosa prima, eh? Parliamo con calma»
«E’ il tuo nome no? Fiorellino»
«Non è il mio nome. Mi chiami solo tu così. Promettimi che chiamerai lo psicologo. Ti prego, almeno questo».
«Non te lo prometto perché non lo farò. E’ semplice».
«Ma io non posso salire su quel…»
«Senti?  Devi proprio andare. Ci vediamo dai… e se non ci vediamo, ricordati di dimenticarmi spesso Fiorellino».
«Ti odio sai? Ti odio con tutto il cuore. » Lui abbozza un sorriso, si volta e se ne va.
«Dammi venti Euro. Non ho un centesimo in tasca» gli urla dietro lei.
«Non ho soldi» risponde Luca sollevando le spalle.
«Ti chiamo appena arrivo, eh? »
“Fiorellino Fiorellino cos’hai mai in quel cervellino? E perché per tua disdetta di ascoltar non dai mai retta?” canticchia tra se allontanandosi, poi d’improvviso gli viene una gran voglia di ridere pensando alla macchina parcheggiata in doppia fila.
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«Vuoi amigo? »
«Non fumo, non me ne faccio nulla di un accendino. Dovresti  differenziarti dagli altri, scusa se te lo dico, eh» dice Luca fermandosi di fronte al ragazzo di colore che gli ha piazzato la scatola proprio sotto il naso  «Altrimenti sarai sempre e soltanto un’altra formichina invisibile che scorrazza senza costrutto su un immenso prato bruciacchiato dal sole. Fossi in te mi troverei un bar, un’edicola, un panificio. Un posto dove circola tanta gente insomma, tanta moneta sonante e mi ci piazzerei davanti in pianta stabile. Instaurerei un rapporto di fiducia con la gente del quartiere, aiuterei le vecchiette con la spesa, parlerei del tempo con gli anziani e finirei col campare di mancette e solidarietà. Certo è un lavoro a lungo raggio, serve lungimiranza,  i frutti li vedresti solo dopo qualche mese, ma una volta iniziati non finirebbero più fidati. Qui chi vuoi che ti veda? »
Il ragazzo sorride,  sembra non capire, agita di nuovo  la scatola con gli accendini  invitandolo a sceglierne uno.
«Non fumo ti ho detto. Ombrelli ne hai? »
«No. No ombrelli. No piove» dice allargando le braccia  «Sole» fa poi, indicando il lucernario sopra le loro teste,  felice di avere ancora almeno una certezza.
«Quanto li fai gli ombrelli? »
«No. No ombrelli»
«Ho capito,  ma quanto li fai? »
«Cinque. Cinque euro»
«Mi sembra un prezzo  eccessivo, non trovi? Forse potresti venire un po’  incontro a un vecchio amico, eh? Non me la passo molto bene ultimamente con le finanze sai? » dice dando di gomito al ragazzo «Facciamo quattro e non se ne parla più va bene? Me li vendi per quattro euro gli ombrelli? »
«Ma, no ombrelli!» risponde l’altro un po’ seccato, indicando il lenzuolo ai suoi piedi sul quale ha posato  il suo patrimonio itinerante.
«Questo potrebbe essere un bel problema, sì» dice Luca annuendo perplesso «davvero un bel problema» Una ventata pungente di urina e patatine fritte s’intrufola tra i due, un treno scarica i freni da qualche parte «allez allez» due turisti passano di corsa davanti ai loro occhi trascinando  valigie a rotelle.
«Facciamo così» dice Luca tirando fuori il portafogli «mmm, vediamo un po’. Vediamo un po’ cosa abbiamo qui. Ecco,  ci sono trentacinque Euro, vedi? » Il ragazzo annuisce,  un po’ sul diffidente perché di solito è lui a proporre le cose «Domani, tu, dieci ombrelli, qui» gli dice porgendogli i soldi.
«Ma, no. No posso. No sicuro io» risponde il ragazzo a disagio continuando a fissare le banconote «No so se capo ha ombrelli».
«Ah, ma questo non è un problema tra gente di mondo come noi. Ci fidiamo noi due no?  Tra vecchi amici è così, no?  Se non li hai domani li avrai per domani l’altro».
«Sì, sì. Per sabato, sicuro» risponde il ragazzo allungando la mano.
«Ecco, tieni. Domani qui. O domani l’altro, s’intende»
Il ragazzo prende i soldi mettendo su  un'espressione timida e diffidente al tempo stesso, come chi ha appena fatto  una promessa che forse non sarà in grado di mantenere. Guarda Luca allontanarsi lungo il binario canticchiando qualcosa; tranquillo e soddisfatto come chi ha appena concluso un grande affare.

«Eh,  non lo so papà  doveva partire venti minuti fa. Sì, sì, mi ha lasciata.  E’ andata proprio come dicevi tu. » Rebecca  guarda fuori dal finestrino. C’è una strana animazione. «No, no. Torno  a Siena ho preso in affitto una stanza, non mi andava di stare da quelle stronze» dice facendo una smorfia come per giustificarsi della bugia appena detta al padre rivolgendosi  alla ragazza di fronte, che, finge di non guardarla seminascosta dietro al libro, ma che invece l’ascolta con grande attenzione da quando ha iniziato a parlare «Ma certo che è innamorato. Sì, no. Vedrai che dura poco questa volta. Un mese gli do poi mi chiama. Scusa un attimo papà.   Ascolta Mafalda perché non vai a vedere che cazzo succede invece di star qui a sentire i cavoli miei? »
La ragazza solleva gli occhi dal libro «Io non mi chiamo Mafalda» protesta.
«Ah no? Bè, le assomigli proprio sai? Ce l’hai presente il fumetto? Lascia perdere quel libro che è uno schifo. E’ scritto con i piedi, i personaggi non hanno spessore, e quella scema manco muore alla fine. Dai su fa qualcosa di utile e vai a sentire perché non si parte» La ragazza si alza scocciata. Posa con cura  il libro sul sedile poi guarda Rebecca.
«Tranquilla, che te la ruba una schifezza del genere»  la guarda allontanarsi poi riprende a parlare col padre.
«Oh, ci sei ancora? Sì, una cretina. La mamma come sta? » “C’è un tempo per tutto fiorellino” «Ascolta papà. Aspetta che glielo dica io ok? Puoi fare questa cosa per me? Lo sai com’è fatta. »
C’è un tempo per tutto «Sì, sì. Sono ancora qui. E’ che stavo pensando a una cosa strana che ha detto Luca prima di salutarmi. Avresti dovuto vedere che occhi aveva. Ma faceva il fiero sai? Ah lo conosci no? Non ha quasi pianto… sì bè solo un po’ quando sono salita sul treno».
Agenti della Polfer che corrono sulla pensilina,  musica araba alle sue spalle, il sole scompare dietro una nuvola e d’improvviso la stazione intera precipita in una dolorosa e pesantissima  atmosfera angosciosa.  Immobili i viaggiatori lungo il binario ascoltano la voce dell’annunciatore che parla di ritardi indefiniti in tante lingue diverse.
C’è un tempo… “ Una sciabolata dritta al cuore,  il respiro che si blocca.  Miliardi di spilli su tutto il corpo, lo sguardo si fissa sul cestino della spazzatura attaccato alla colonna di marmo vicinissima al finestrino, cosicché il cervello non deve sprecare risorse preziose cercando  nomi per altre  immagini.
“ Dio mio no… “  Sirene d’ambulanze in lontananza, altri agenti di corsa  «Ascolta papà, devo andare. Non mi sento molto bene. Qualcosa non va»  “no, no, no… “sente il sapore delle lacrime che s’infilano in bocca mentre gli occhi seguono il dito che scrive, di testa sua, il nome del suo ragazzo violentando la condensa sul vetro.
«Papà? Ce la facciamo a passare l’ultimo dell’anno tutti insieme come ai vecchi tempi? Senti se può venire anche Alessandro eh, non lo vedo da tre anni. Mi mancate così tanto, sai? Oh Dio, vi voglio così bene»
«Mi sa che è una cosa lunga» dice Mafalda tornando «Uno s’è buttato sotto un treno , poco più avanti. Perfetto, proprio perfetto. Proprio qui… t’immagini quante possibilità ci sono che capitasse proprio oggi, proprio a quest’ora?»  dice lasciandosi cadere sulla poltrona «Chissà che gli passa per la testa a questa gente» riprende il libro in mano e ritrovato il punto dove aveva interrotto la lettura dice scuotendo  la testa «Poveraccio, speriamo sia morto subito almeno, no? Oh, che non parli più? Dai, ricominciamo da capo, ok? Hai ragione, sai. E’ un brutto vizio che prima o poi dovrò decidermi a mollare, quello di ascoltare gli altri mentre parlano, intendo. E’ che voglio fare la scrittrice, e allora mi diverto a raccogliere storie qua e là» dice Mafalda stringendo appena le spalle. Poi le porge la mano sorridendo «Piacere Sabrina»