Sabato sera, io mia
moglie e i ragazzi, siamo finiti tutti insieme a guardare un film sul divano
del salotto. - circostanza che ritengo irripetibile in quanto il più grande ha quasi
diciassette anni, e in casa più che altro ce lo ricordiamo facendoci aiutare da
fotografie appese qua e là, oppure gettando l’occhio sul disordine
metastatizzato che incorona la sua zona letto fino alla postazione del computer-.
Il film non era
per nulla interessante, ma c’era uno strano bisogno di “famigliarità” nell’aria che impediva ai membri di casa Aldobrandi di alzarsi e andare
ognuno per i fatti propri; forse era merito della multa da trecento euro
arrivata per posta la mattina; un po’ tutte le famiglie ritrovano unità nei
momenti peggiori.
Nel film comunque a un certo punto i genitori accompagnano i due figli adolescenti alla stazione, dove prenderanno un treno che li porterà lontani per un mese intero insieme al
resto della classe.
La mamma scoppia a
piangere abbracciandoli, il padre riesce a tenere un certo contegno seppur
anche a lui gli si velino di lacrime mentre i due giovani sbuffano imbarazzati
e continuano a guardarsi intorno, per nulla dispiaciuti all’idea di andarsene,
di staccarsi un po’ da loro.
La scena mi ha
toccato, inutile negarlo, ma non nel modo che avrebbe dovuto.
D’improvviso mi
sono sentito violato, vulnerabile, esposto, affondato fino alle ginocchia in
una palude di fredda indifferenza. Come se qualcuno avesse di colpo messo a
nudo una verità che il pudore di solito lascia soltanto intendere. Una verità
taciuta, non sbandierata, di cui il vincitore rende onore allo sconfitto con la
promessa sottintesa di non sventolarla mai davanti ai suoi occhi.
E invece no, il
destino si era divertito a mescolare un po’ le carte e ci aveva riuniti tutti
nella stessa stanza proprio per mostrarcela in tutta la sua silenziosa
drammaticità.
Ho avvertito una vergognosa
sensazione d’inferiorità nei confronti dei miei ragazzi, subito seguita da un
cupo rancore nei confronti del tempo che è proprio uno schifo. Ho anche pensato
e sottoscritto in gran segreto una legge universale che vieta di mostrare ai
maggiori di quarant’anni certe scene, se in presenza di figli adolescenti.
Ricordo benissimo
la pena che provavo nei confronti dei miei vecchi, quando io, giovane e forte,
al sabato sera li salutavo lasciandoli stanchi e ingrigiti uno accanto all’altra
ancora seduti in cucina.
Il sapore di cosa
morta in bocca che mi teneva compagnia finché non lo buttavo giù a suon di vita
e risate con gli amici.
Per l’amor del
cielo lo so, i ragazzi sono così: fanno i ragazzi e basta, e d’ora in poi si
serviranno del coltello che il tempo ha messo loro in mano dalla parte del manico per
spalancare una dopo l’altra, senza cattiveria
o malizia alcuna, le emozioni che questo povero “vecchio” tiene chiuse dentro
ai suoi gusci d’ostrica. È una corsa alla quale nessuno può sottrarsi.
Ho osservato di
sottecchi il maggiore per vedere se anche lui aveva avvertito qualcosa, se per
caso mi stesse guardando con un sorriso beffardo, soddisfatto o magari carico
di muta pietà nei miei confronti, ma nulla; continuava a guardare il film con
lo stesso interesse svagato di prima. Poi ho spostato lo sguardo sugli altri
due, anche su mia moglie alla fine: la mia compagna di vita, la mia roccia
emersa in un mare di dubbi; allora ho avuta chiara la consapevolezza di essere
il solo nella stanza a sentirsi piuttosto male, di essere l’unico a soffrire
per quello che percepivo come un vero e proprio affronto.
Meglio così, avessi
incontrato anche solo uno di quegli sguardi non avrei proprio saputo come
comportarmi.
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