mercoledì 19 marzo 2014

Teresa







«E’ davvero una miseria»
«E’ il contratto nazionale Signora. Non è che li scrivo io nel retrobottega»
«Sì, ma ciò non toglie che sia una miseria. Non trova? »
L’uomo appoggia le spalle alla sedia, poi gonfia il petto prima di parlare «Senta signora. Vediamo se ci intendiamo. Ho altri diciassette candidati per quel posto. Se per lei non va bene basta che me lo dice. Io capisco tutto, sa? E sì, sono d’accordo con lei che in effetti …»
«No, no. Accetto, ci mancherebbe» dice Teresa
«Ah, bene bene. E per quell’altra questione invece è no. Non può venire a trovarlo nell’orario di lavoro»
«Ma voglio essere sicura che faccia tutto per bene. Prima il sapone, poi il panno. Movimento circolare» Teresa fa cenno col braccio sorridendo «sono settimane che facciamo le prove in casa. E’ bravo sa?>>
«Non si può. Non si preoccupi signora, abbiamo persone molto qualificate per istruire i… le persone svantaggiate»
«Stava per dire i ritardati, vero? »
l’uomo abbassa lo sguardo «… Ecco»
«Non c’è problema, sa? Mio figlio non è ritardato, ha solo bisogno di iniziare da qualche parte»
«Allora a lunedì. Mi riporti questo firmato dal ragazzo»
«A lunedì» risponde Teresa, mentre un sorriso orgoglioso sembra illuminarla per intero attraversandola in perpendicolare appena le dita sfiorano il contratto di lavoro del figlio.
Le sembra di volare. Be’ non proprio, è più una sensazione di galleggiamento di sospensione. Il tram le scivola accanto avvicinandosi alla fermata. L’istinto la predispone alla corsa, ma poi decide di camminare ancora un po’e di salire a quella successiva; c’è tempo. La giornata è così bella. I pensieri, come bollicine nell’acqua gasata, si staccano dal fondo e salgono su presentandosi tutti belli e colorati, pronti a farla stare ancora meglio “ tutti hanno iniziato pulendo i tavoli” pensa “poi li passano in cucina, poi diventano Manager se dimostrano di le avere  capacità e poi… “Al pensiero gli occhi brillano di una luce particolare nell’aria frizzante di Febbraio  “poi li mandano su: negli uffici. Peccato non sia voluto venire, devo sforzarmi di farlo uscire, staccarlo da quel maledetto televisore” Sale sul tram e si siede accanto a una coppia di giovani fidanzati. Li sente parlare, li sente ridere.  Poggia la borsa sulle ginocchia e se la stringe al petto “ Stai a vedere che mi tocca anche trovargli una fidanzata alla fine” la considerazione le strappa un altro  sorriso . Apre di nuovo la borsa. Il contratto è lì: reale, concreto.  “ Addetto pulizie. Periodo prova tre mesi. Invalidità riconosciuta 57%. Anni 24. Assunzione obbligatoria quote di riserva…  “ Con una scossa il tram inizia a muoversi, Teresa sistema la gonna sotto le cosce poi sospira soddisfatta.
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«Buongiorno signora Lanini» dice rivolta alla signora in ginocchio con la testa in mezzo ai fiori del piccolo giardino condominiale che introduce al portone del palazzo.
«Buongiorno Teresa» risponde l’altra alzandosi a fatica «Guardi qui, tutto rovinato» dice indicando  le azalee mezze morte. «Qualcuno dovrà dirlo all’amministratore. Pisciano da tutte le parti. Quanti gatti avrà adesso? Io ne ho contati almeno dieci. Se non di più»
«Sì, da quando le è morto il marito…povera Marta».
«Sì, sì, certo. Io capisco, sa? Anche a me è morto il marito tanto tempo fa. Ma le piante sono mie. Ci metto tanta passione»
«Guardi cosa ho qui» dice Teresa strizzando gli occhietti umidi, mentre tira fuori il contratto dalla borsa.
«Cos’è? »
«Il contratto di lavoro di Luca. Inizia lunedì. Guardi, guardi. C’è  il suo nome in maiuscolo»
«Oddio Teresa. Sono così felice per voi. Lei e suo marito, ve lo meritate proprio. Non dev’essere facile»
«Cosa signora Lanini? » domanda Teresa  determinata a non spegnere il sorriso
«No, intendevo… Guardi qui! Anche sulle rose! Ma che fanno? Si arrampicano sull’inferriata apposta per farcela sopra?»
«Vado, la lascio al suo lavoro»
«Arrivederci Teresa»
Si sorprende a fischiettare un motivetto sconosciuto mentre aspetta l’ascensore. Un’altra bollicina si stacca dal fondo e risale senza peso fino a concretizzarsi nella mente sotto forma d’immagine. E’ quella dei futuri colleghi di lavoro del figlio, che con l’andare dei giorni iniziano a scambiarsi tra loro occhiate d’intesa via via che prendono coscienza delle qualità di Luca, arrivando a litigarselo addirittura «Dovresti proprio passare in cucina sai? Ci farebbe comodo uno come te»  «Senti Luca, ho visto come lavori e mi sembri sprecato qui sotto. Se vuoi metto una parolina per te, su in ufficio. Anche se non ci capisci di contabilità, uno come te impara in fretta. Sono sicuro»
«Luca, Luca! » urla entrando in casa. Luca non risponde. Le arriva invece chiara dal salotto la sigla iniziale di Spongebob, alla quale sarebbe ormai in grado di appiccicare, ad ogni nota, il relativo fotogramma per tutte le volte che l’ha vista e sentita seduta in silenzio accanto al figlio. Guardava la sua bocca sempre mezza aperta in un’espressione di stupore involontario, le mani sempre nella stessa posizione: diligentemente poggiate sulle cosce mai accavallate.
«Guarda qua» dice Teresa infilando il contratto proprio sotto il mento del figlio. Luca distoglie gli occhi dalla Tv, guarda appena il foglio, poi fa «ah»
«Sai cos’è? E’ il tuo contratto di lavoro. Inizi lunedì» Luca scuote la testa senza proferire suono “no,no,no!” ma poi poco alla volta si calma sentendo la mano della mamma sui capelli «Ci sono un sacco di ragazzi simpatici sai? » sussurra Teresa alle sue spalle «Chiedono tutti di te. Ma Luca dov’è? Quando inizia? Vogliamo Luca! Luca! Luca! Luca!» dice imitando un vocio euforico collettivo e continua ad accarezzargli i capelli e a parlargli, finché lui non si calma del tutto. Poi Teresa s’inginocchia alla sue spalle, gli passa un braccio intorno al collo e dopo aver poggiato la testa sull’ampia schiena del figlio, dice piano «Devi proprio smettere di fare la pipì dal balcone, sai?»                                                                                     °°°
    C’è un party come si dice adesso. Qualche bambino compie gli anni. Si sentono le urla: eccitate, isteriche, fuori scala,  di bambini lasciati liberi di scatenare tutta la vitalità che preme e sbatte con ferocia, compressa in quei piccoli corpicini affamati d’allegria. Luca non si vede. E’ la prima volta che capita una festa in dieci giorni. Le cose sono andate bene fino a oggi. Non si è persa neanche un giorno, non possono certo cacciarla se sta fuori senza farsi notare. Sono stati carini sì, ma allo stesso tempo fermi, spiegandogli cosa volevano che facesse. Luca annuiva e poi faceva  quello che gli avevano chiesto di fare, ancora un po’ sulla difensiva, ma lei sa che presto comincerà a fare di testa sua e che i colleghi inizieranno a darsi di gomito entusiasti.
     Ma adesso il suo bambino non si vede. A dire il vero non riesce a vedere quasi niente. La condensa ha formato una specie d’intonaco opaco dietro la grande vetrata e, soltanto quando qualche goccia troppo carica scivola giù trascinando con se altra umidità, Teresa riesce a intravedere qualcosa. Alla fine lo vede: seduto in fondo al locale, con quella bella uniforme nuova marrone e gialla. “Oh, no! No! Dai Luca su… non fare così alla mamma, ti prego! Sono solo bambini che giocano, non avere paura” Luca non fa niente. Sta fermo con gli occhi fissi sul party. Forse vorrebbe unirsi a loro? Più probabile che quell’esuberanza, quella involontaria ostentazione di vita, lo mettano a disagio. “ Ti voglio bene cucciolone. Su dai, alzati e fai il tuo lavoro . Movimento circolare, come ti ha insegnato la mamma, eh? Sapone, panno… “ Come se l’avesse sentita Luca si alza. “Ma che fa? “ Si avvia verso i bambini. Teresa sente il cuore perdere un battito “Dio mio, no Luca,  sono piccoli…    Luca afferra un vassoio, poi un altro, e poi un altro ancora. Ci mette sopra i contenitori vuoti che le mamme gli porgono via via, proprio come un annoiato cameriere di   fast-food in un normalissimo giorno di lavoro. Teresa osserva la scena con i palmi delle mani incollati al vetro e gli occhi lucidi. Avrebbe voglia di urlare “Quello è mio figlio! Il mio bambino!” Ma non può farlo,  ne andrebbe della carriera di Luca. E allora resta lì, silenziosa, con gli occhi incendiati d’amore e il cuore aggrappato alla speranza di un futuro fatto di cose normali per il suo bambino.











mercoledì 26 febbraio 2014

Il tempo confonde i tuoi contorni





«Ti spiego» e detto questo se ne partiva con una di quelle palle tediose che non andavano mai da nessuna parte. Di sicuro la persona meno indicata per dare spiegazioni, era capace di tenerti anche mezz’ora lì, nel vano tentativo di mettere insieme un qualche concetto sensato, qualsiasi cosa si potesse definire frutto della logica, per poi finire sempre lì; naufrago in mezzo al mare delle sue stesse parole. Un incapace, ma senza la modestia che almeno si richiede loro. Una nullità piena di boria; ecco cos’era.  Quando Enzo mi chiamò per dirmi che sarei dovuto andare con lui a proporre i nuovi prodotti su a Chiasso gli dissi «Cazzo no. Non puoi mandarmi fin lassù con quello»

«Perché? Poverino dai, è simpatico. Vi fate un bel viaggetto. » rispose con la voce velata dall’ironia

«Non lo sopporto. E’ una testa di cazzo. Mi spiega sempre tutto» sentii che rideva dall’altra parte, anche se cercava di non farsi sentire «Dammi Luca, dai» dissi allora cercando di farla sembrare una supplica  «Almeno lui non dice mai nulla, sembra morto, e se ti guarda lo fa solo per ascoltare»

«Luca è in Ungheria. Senti, Gianni…» iniziò quello che sembrava dover essere un bel discorso conciliatorio ma poi, o perché non si ricordava cosa stava per dire, o perché gliene mancò la voglia lo tagliò subito. «Allora mi raccomando, portatemi almeno tre contratti firmati. Lascia parlare lui allora, se è così bravo a spiegarle le cose» terminò la frase con la voce rotta dal ridere e riattaccò.

Partimmo un venerdì mattina infradiciato da una pioggerella insignificante. In cielo borbottavano in continuazione tuoni senza pretese e l’asfalto, quando il sole riusciva a bucare l’abbraccio di nuvole, risplendeva lucido come l’interno di una conchiglia. Mi sorbii almeno un’ora di musica anonima, che il mio compagno di viaggio sembrava scegliere in base al colore delle auto che ci sorpassavano. Se erano derivazioni  cambiava canale, se invece erano colori primari la radio restava sintonizzata su quella stazione. Ma poi giudicai la mia una valutazione troppo assurda per essere reale. E comunque il giochetto – se di giochetto si trattava - sembrava intrigare il mio collega/autista, e finché se ne stava zitto a modulare le leggi della sua dittatura radiofonica, a me andava benone.

«Lo sai che c’è? » disse a un certo punto abbassando il volume della radio. “Eccoci” pensai… “non siamo neanche a Bologna”

«No. Non lo so che c’è. Dimmelo tu che c’è»

«C’è che sono circondato da giovani. Prima quando mi guardavo intorno vedevo solo vecchi, adesso vedo… » lo interruppi

«Oddio, senti» dissi «Non è che mi parti con una di quelle storie  sul senso della vita, o del perché… »

«No, tranquillo» rispose lui «non fosse mai» aggiunse staccando la mano destra dal volante, sventolandola in aria come per scusarsi.

«No, perché oggi proprio non ce la faccio»

«Gianni, ho detto tranquillo. Vuoi stare zitto fino a Chiasso? Va bene per me. Non dico nulla, tu non dici nulla, ci facciamo questi seicento chilometri in silenzio, ognuno pensa ai fatti suoi, eh? Seicento ad andare e seicento a tornare» Non risposi, per me andava benissimo. Rialzò il volume della radio e io tornai a studiare i fogli promozionali dell’azienda. Gli devo dare atto che ci provò. Riuscì a non aprire bocca per almeno un’altra ora perché quando lo fece c’eravamo lasciati alle spalle da un pezzo Parma.

«Almeno lasciami raccontare che mi è successo sabato sera. Questo lavoro di merda… siamo sempre soli, e per una volta che viaggio insieme a un altro» lasciò la frase in sospeso mettendo su un’espressione un po’ offesa «tu non hai voglia di parlare» terminò. Non dissi nulla, perché tanto sapevo che non si sarebbe fermato.

«Insomma, ero stato a mangiare in quel locale dove fanno Karaoke, no? Dove prima c’era una pompa di benzina. Quello dove poi a una cert’ora si può anche ballare.  SI chiama Garden, o Gardenia, o qualcos’altro. Al buio non si legge bene quell’insegna» fece una breve pausa poi riprese a parlare «ero solo perché… perché, non lo so perché ero solo. A dire il vero mi sto vedendo con una tipa là dentro, ma il nostro rapporto è ancora agli inizi. Ci guardiamo e basta, non ci siamo mai parlati per ora» poi si bloccò e fece un gesto d’irritazione con la mano, come se cercasse di concentrarsi su quello che davvero voleva dirmi, come fosse al corrente  di quel nomignolo “girovago del nulla” che gli avevo affibbiato, per il suo parlare a vanvera e senza costrutto «Sì, ma questo non è quello che volevo raccontare cazzo» io non alzai neanche la testa, continuai a fingere di leggere «insomma, stavo tornando a casa dal Gardered , ok? Guidavo piano sai? Avevo un po’ bevuto, e tutto a un tratto, sul viadotto della colonna, vedo un gatto steso in mezzo alla strada.  Accosto l’auto, era tardi non c’era nessuno in giro, e scendo. Il gatto sembrava proprio morto stecchito, no? Insomma, immobile, con gli occhi aperti. Mi sono chinato sulle ginocchia e ho fatto per toccarlo. Quello che è successo dopo non riesco ancora a spiegarmelo. Il gatto ha fatto un salto per aria e non so come, è volato di sotto. Quanti saranno? Trenta, quaranta metri quel viadotto? Ecco, dimmi tu…» risi dentro di me ma feci finta di nulla. “Queste cose assurde succedono solo a gente come lui” pensai. «Ti rendi conto? »riprese poco dopo «Che gli avrò fatto di male io? Ora me lo sento sulla coscienza. Volevo aiutarlo e invece l’ho ammazzato» Annuii appena come per fargli capire che avevo ascoltato tutto, e che sostanzialmente ero d’accordo con lui sul fatto che non avesse colpe «riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» Aggiunse  guardandomi. Anch’io allora lo guardai, e rimanemmo un po’ così in silenzio; a guardarci.

«Tu mi odi vero Gianni? » disse poi

«Dovrei? » risposi io

«Sì, ma ormai no. Cioè, sono passati quasi nove anni… » disse sempre facendo quel verso con la mano assolutorio «Fu lei cazzo, non io»

«Perché tu dov’eri? »

«Sì, cioè, c’ero, è ovvio, e ti ho già chiesto scusa. Ma fu lei a iniziare ripeto, non io»

«Fermiamoci al prossimo autogrill per favore. Devo andare in bagno» risposi.

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Il parcheggio è ampio, le macchine sono poche. Si chiama “Villa Garden Plaza” si vede che sei anni fa, quando ci venne il mio collega l’insegna aveva diversi neon fuori uso. «Oh, ma che avete combinato» mi disse Enzo quando tornammo da Chiasso porgendomi la mano «Perché? » risposi «E’ andata bene, no? » «Ha dato le dimissioni, se n’è andato» rispose «non mi ha spiegato il perché. Se n’è andato e basta» anche allora non dissi nulla. Feci spallucce.

L’atmosfera all’interno è piuttosto allegra; mi siedo e ordino una birra. A parte una comitiva di bambini alla mia destra, per il resto il locale è prevalentemente occupato da single. Uomini e donne che seguono una metodica di comportamenti inesorabili: si guardano si fiutano si fronteggiano e infine riducono le distanze. Poi capita anche a me. Non è molto bella, ma è giovane e forse spensierata quanto basta. Mi avvicino. Mi presento, si presenta. E’ in compagnia di amici, come lo siamo tutti qui dentro suppongo, ma al momento è sola, chissà dove sono finiti quei burloni. Porta la fede vedo, ma appena si accorge che la sto guardando, con un movimento rapido cela la mano dietro al braccio destro poggiato sul bancone del bar. Parliamo un po’,  io faccio l’avvocato. Poi spingo il piede sull’acceleratore e lei non frena, anzi.  Mentre ci baciamo, uscendo, non riesco a trattenermi e le afferro la mano; quella mano. Quella che di sicuro il marito le avrà sorretto all’altare infilandole l’anello. Non pare accorgersi della soddisfazione che provo mentre le spingo la lingua quasi fino in gola e allo stesso tempo saggio la consistenza di quella promessa d’amore eterno. «Riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» forse anche lei, un giorno, reciterà al marito questa bella frase a effetto, penso soddisfatto.

 

 

 

 

 

 

giovedì 30 gennaio 2014

Istantanee






Il nerd scrive con la testa quasi poggiata sul tavolo. Ogni tanto la solleva, fa un conto con la calcolatrice, poi la riabbassa e riprende a scrivere con grande impegno.
    La ragazzina bionda e bellina siede al tavolo accanto. Capelli tenuti su con un elastico che li strizza fino a formare proprio sulla punta del capo una simpatica fontanella. Un ampio maglione pesante bianco con disegni pixellosi neri di sapore anni ottanta: Wham, Videomusic, Spandau. Un paio di fuseaux neri e scarpe da ginnastica bianche Nike, con logo anch’esso bianco annunciato appena dalla finitura solo un po’ più scura della cucitura. Doveroso abbigliamento informale da biblioteca con il quale la ragazza cerca d’immobilizzare o perlomeno ingabbiare la civetteria, alla quale però intanto ha concesso asilo nella penna e nell’evidenziatore che sono di un giallo sgargiante. 
    L’altra, quella brutta, le siede di fronte dall’altra parte del tavolo. Viso piatto, sopracciglia un po’ troppo alte, labbra sottili di chi soffre in continuazione. Sembra la fotografia di un’altra appiccicata in fretta e furia sulla testa sbagliata, oppure, per chi ama gli animali, l’evoluzione di un Pechinese. Brusca nel fare e nel sedere. Non si da neanche la pena di accavallare una gamba; tiene le ginocchia unite e i piedi ben piantati per terra. Un golfino di lana beige aperto sopra un lupetto appena un po’ più scuro. Jeans blu, scarpe nere.
     A un certo punto sollevando gli occhi dal libro, si rivolge alla biondina e le sussurra qualcosa.  Quella, come se non aspettasse altro da sfogo a tutta la vitalità domata fino a quel momento e non potendo urlare esplode in un’esclamazione muta carica di stupore «Ma dai? » Sembrano gridare gli occhi . «Ma davvero? » la ragazza brutta prosegue nella narrazione senza mostrare neanche un briciolo della gioia ed emozione che invece scuotono l’altra «No! Non ci credo! » strillano gli occhi della biondina mentre continua ad ascoltare e a fare facce; ora incredule ora estasiate, ora sorprese ora meravigliate.  «Dimmi! Dimmi ancora» brama agitatissima con un allegro rossore nel viso.
    Non riesco a capire se quello non è altro che un sofisticato sistema di contrappesi che la ragazza bellina mette in pratica per cercare di limare lo squilibrio delle forze in campo; indecisa tra la cortesia che deve all’amica che così brutta deve per forza aver bisogno di costante sostegno morale, o un banalissimo reale interesse per le cose che dice.  Intanto però pensa bene di retribuirla, incensandola di un’attenzione esagerata, così da poterla sollevare dalla pozza d’acqua stagnante nella quale di sicuro pensa che passi le giornate fino a portarsela proprio davanti agli occhi, nei quali sa, potrà di nuovo specchiarsi e vedersi ancora bella come non mai.
    Il nerd solleva la testa. Ha una ferita nel cuore che non si richiude. Cerca di rimpinzarlo di numeri ed equazioni ma gli cade tutto in terra e la mente poi torna subito là. Sotto quella finestra. Dove prima, senza coraggio per fare altro, di tanto in tanto si appostava di nascosto anche solo per vedere il suo amore passarci davanti e poi andarsene felice, con un’istantanea rubata di lei sorridente, pensierosa, arrabbiata, oppure sognante. Ah, cosa non avrebbe dato per potersi infilare dentro di uno di quei sogni, magari anche solo come comparsa, o da spettatore a un suo momento felice soltanto per vederla ridere e buttare indietro la testa come la vedeva fare ogni volta che qualcosa la divertiva. Ma sarebbe stato impossibile, lei conosceva appena la sua faccia, e sebbene lui s’ingegnasse durante gli appostamenti per sfruttare le innumerevoli possibilità offerte dall’energia cosmica e farle arrivare plichi ricolmi di bei pensieri e amore, lei non aveva mai dato cenno di percepire la sua presenza sotto la finestra, e cosa peggiore, neanche lo salutava incrociandolo per strada, lasciandolo tramortito con il doloroso compito di svolgere l’ennesima eutanasia di un sorriso.  Non sapeva nulla del suo amore cresciuto tra le ombre della sera, tra le nebbie impenetrabili dell’autunno, tra le gelide nevicate dell’inverno e poi morto in primavera di fronte a una serranda chiusa e due vasi di gerani appassiti, quando il padre di lei era stato costretto ad accettare quel trasferimento in Emilia e se n’erano andati senza neanche avvertirlo. Ma avvertire chi? Che diritti poteva accampare un perfetto sconosciuto?  Riabbassa la testa e riprende a scrivere cercando rifugio nella rassicurante perfezione dei numeri.
    Ci sono tre ragazzi sono seduti al tavolo accanto al mio, tutti giovanissimi avranno sì e no diciotto anni e in una pausa di studio hanno piazzato un Iphone al centro del tavolo. A turno sembra stiano facendo un gioco di dadi o qualcosa che comunque da qui posso soltanto intuire. Dei tre quello con la barbetta sembra essere il più sveglio. E' sicuramente il più interessante, ha un qualche segreto custodito gelosamente in fondo all'animo; forse vuole diventare dottore o magari pilota d'aerei, chissà?  E ce la farà, perché “il mondo è di chi nasce per conquistarlo, e non di chi sogna di poterlo conquistare, anche se ha ragione” .(cit.)
Dall'altra parte della stanza intanto la biondina fissa da un bel po' incuriosita con occhi di cerbiatta il ragazzo con la barbetta, che ignaro gioca beato e detta le regole del gioco ai suoi amici già assoggettati al suo carisma. Ora però il barbetta ha un problema.  Si accorge della ragazza bellina bellina che lo osserva e improvvisamente non gli vengono più quei bei gesti armoniosi  di prima. Anche le leggi della sua dittatura sembrano meno giuste alle orecchie degli amici che ora contestano qua e là. Non riesce a fare a meno  di controllare i gesti cercando di apparire naturale e sincero come prima. E' bastato davvero poco per far crollare tutte le sue certezze. Me ne vado felice, con la consapevolezza che tutto è identico a quando anch'io ero poco più che diciottenne; forse un po' spaesato, ma col cuore sempre all'erta.