mercoledì 12 agosto 2015

Il castigo (un racconto)






Mi hanno sempre messo tristezza gli occhi lucidi addosso alle persone felici, meglio che lo dica subito.
Io e Giacomo eravamo diventati amici almeno una dozzina di volte, abitavamo nella stessa via ma ci eravamo conosciuti soltanto a scuola.
Neanche lui era particolarmente bravo però ci dava dentro più di me e il suo andamento era decisamente migliore. Questo mi mandava in bestia; era inconcepibile che uno nelle sue condizioni prendesse voti più alti dei miei e sulla strada di casa non perdevo occasione per rammentargli le loro umili radici, l’odore stantio della loro casa, la disoccupazione del padre, fino a inventarmi certi avvistamenti della sorella maggiore nella zona del porto, la sera.
Ed erano botte, oh sì! Ce le davamo di santa ragione promettendoci a vicenda l’uccisione, augurandoci fulmini inceneritori e decessi famigliari.
Quando avevamo finito di darcele raccoglievo lo zaino di terra e lo seguivo verso casa a testa bassa perché non potevo fare altrimenti; succedono molte più cose alle persone povere, e all’epoca mi sembravano tutte molto divertenti.

Ero lì quando venne il sindaco a consegnare le chiavi dei nuovi appartamenti d’edilizia sociale. Suo padre aveva gli occhi più lucidi che avessi mai visto addosso a uno che non sta piangendo per via di qualche disgrazia.
Sentii subito un cattivo sapore in bocca nel vedere quegli occhi, che poi prese a scendere giù, nella gola e ancora più giù, andandosi a piazzare al centro del petto trasformato in un cupo tremore: il mio amico se ne andava quindi, e con lui se ne andavano le botte, le minacce di morte, le perpetue riappacificazioni, ma soprattutto se ne andava quella finestra spalancata sulle tribolazioni che tanto m’intrigava.
Quella sera implorai mio padre di fare richiesta per una casa del comune accanto alla loro. Vidi i miei ridere di sottecchi; la mia sofferenza era autentica ma non venivo preso sul serio.
«Non ne abbiamo diritto» rispose mio padre «Quelle sono case che spettano alle persone che hanno avuto meno fortuna nella vita» disse proprio così “meno fortuna nella vita”. Usò una figura retorica per descrivere lo stato dei Costantini. E io allora? Poteva esserci al mondo uno più sfortunato di me, costretto ad assistere alla partenza dell’unico amico solo perché troppo ricco per poterlo seguire?

Il trasloco durò due settimane esatte. Da dietro le tende della nostra cucina, ogni giorno, vedevo suo padre arrivare con un’ape sgangherata e caricarci sopra qualcos’altro. Non fu una sofferenza violenta e improvvisa la mia, no, fui costretto ad assistere all’espianto giornaliero di un pezzetto della felicità legata alle cose che in quella casa l’avevano generata: il divano mezzo rotto sul quale avevo riso come un matto guardando i cartoni trasmessi dalla loro vecchia TV, le sedie di cucina impagliate sulle quali mi ero seduto a dividere con loro la pentola di pasta che la signora Costantini portava in tavola con l’attenzione che si riserva alle reliquie dei santi.
«Ne vuoi ancora Riccardo? » chiedeva con gli occhi lucidi di famiglia appena vedeva il mio piatto vuoto. Anche gli altri avevano finito ma non osavano avvicinarsi alla pentola a centro tavola prima che fossi stato rifornito io.
«Certo, grazie signora!» rispondevo anche se non avevo più fame. E mangiavo, e mangiavo. Mi riempivo la bocca e mangiavo come un maiale mentre gli altri restavano immobili a guardare, come salici piangenti; che gente buffa i Costantini.

C’ero anche il giorno della partenza vera e propria. Questa volta suo padre non arrivò con la solita ape sciancata ma con un’auto vera e propria. Non era granché, e paragonata al SUV di mio padre ne usciva con le ossa rotte, ma bastò a svolgere il compito di accogliere le ultime valigie e tutta quanta la famiglia.
Io stavo immobile in mezzo alla via ad aspettare il momento in cui il mio amico Giacomo sarebbe corso verso di me frignando di non volersene andare.
Invece a un certo punto, subito prima che partissero, vidi scendere dall’auto suo padre che mi venne incontro con gli occhioni cangianti e un sorriso storto sulle labbra.
«Lascia perdere, eh» mi disse stropicciandomi i capelli «Non pensarci più, ti farai dei nuovi amici. È difficile da capire alla tua età ma noi andiamo a stare meglio, dovresti essere contento»
Guardavo la testa del mio amico in mezzo a quelle delle sorelle sul sedile posteriore dell’auto che andava in qua e in là dal ridere. Ridevano e scherzavano tra loro pensando alla nuova casa, a una nuova vita lontano dalla nostra via, mentre io avrei voluto che morissero e basta. “Ti giri vero?” Pensavo “Girati brutto morto di fame, almeno saluta!”
«Perché?»
«Per noi che andiamo a stare meglio. Avremo una casa nostra se Dio vuole»
«Sì certo, pagata da noi. Dalla gente che lavora come mio padre»
«Anch’io lavoro se è per questo. Non è …»
«Perché non si volta? Non mi saluta neanche?  » domandai indicando l’auto.
Il padre di Giacomo sollevò le spalle come per dire che non ne aveva idea, ma ho il sospetto che sapesse benissimo il perché.
«Va be' senti, dobbiamo andare» disse poi «ma promettimi che non penserai più a noi. Mi ucciderebbe sapere che diventi triste ripensando a noi, eh? Me lo prometti? »
Rimasi zitto e non promisi un bel nulla. Allora li avrei pensati ogni giorno! Ogni ora, ogni minuto, solo per farli soffrire d’ora in poi.
L’auto si allontanò e il mio amico non si voltò mai. Non l’ho più rivisto.

Quando rientrai anche mia madre mi stropicciò un attimo i capelli. A cena si superò: tagliatelle ai funghi porcini, pollo arrosto e patatine fritte a volontà. Mangiai fino quasi a scoppiare, e poi mangiai ancora e ancora.
Più tardi, a letto, rimasi a lungo a guardare l’ombra prodotta dal lampadario sul soffitto senza riuscire a prendere sonno; sembrava avessi un animaletto dentro, qualcosa che si aggirava frugando tra stomaco e cuore.
A un certo punto balzai in piedi spinto da un irrefrenabile bisogno di agire. Andai a cercare tra gli attrezzi di mio padre e acchiappai un cacciavite bello grande. L'affondai ripetutamente nel divano del salotto tranciando in più punti la pelle lucida, poi mi accanii sulla TV da cinquantadue pollici graffiando e colpendo con la punta lo schermo. Alla fine ricordo che rimasi a lungo in silenzio, col cuore che mi batteva all’impazzata e il cacciavite in mano a osservare soddisfatto l’opera.
I miei non arrivavano a sgridarmi nonostante il baccano, se la dormivano della grossa. Mi travolse come una piena l’idea che probabilmente ero l’unico sveglio in tutta la strada, forse addirittura in tutta la città: un bambino ricco e fortunato. Poi d’improvviso, senza avvertimento alcuno, arrivarono le lacrime. Piansi per un bel po' ricordo, in piedi al centro della stanza; un pianto strano, senza dolore, senza commozione, simile a un lungo spurgo.




venerdì 7 agosto 2015

Manuale di crescita






Pensavo che a un certo punto mi avrebbero messo al corrente del segreto. Sì, proprio così: pensavo che un bel giorno sarebbero venuti da me e mi avrebbero detto: benvenuto nel club, ora sei dei nostri e non devi più aver paura di nulla. Ecco vedi Enrico, si fa così e così.

Credevo che gli adulti fossero a conoscenza di qualcosa, un codice segreto del fare che per il momento ignoravo, ma che di sicuro, a tempo debito, mi avrebbero svelato.
Questo mi succedeva almeno fino ai vent’anni. Sì lo so, è cosa strana, e forse sono pochi quelli attraversati da tanta insicurezza da arrivare a immaginarsi codici segreti o città proibite per spiegarsi la costante sensazione d’inadeguatezza, ma a me andava così.
Gli anni passavano comunque e nessuno mi diceva nulla, e io piano piano avevo preso (da solo) ad assomigliare sempre più a loro: gli adulti “i grandi”.

Facevo cose, prendevo decisioni, mi assumevo delle responsabilità, senza tuttavia mai staccarmi del tutto dall’idea affettuosa che ogni cosa, ogni decisione, venisse accuratamente soppesata da qualche parte dietro le quinte (come nel film The Truman show) .

Ora sono i miei ragazzi che mi guardano di nascosto cercando di capire come si fa.
Diciassette anni sono una gran bell’età, ma sono anche un casino: s’iniziano a sentire chiudersi le prime porte alle spalle, si capisce che la pacchia sta per finire.
Forse si aspettano da me la “rivelazione”, la valigetta con i codici, un bel paio di chiavi per accedere alla città proibita.

Invece servono anni per diventare uomini, decenni, un’era geologica. Serve una planimetria dettagliatissima piena zeppa di errori, calci in culo, botte in testa e delusioni per mettere in moto questa macchina infernale chiamata “uomo” e farla marciare in una direzione qualsiasi.
Vedo i ragazzini che entrano da me la notte, a prendere la schiacciata. Sono giovanissimi, 15 – 18 anni al massimo. Mi guardano timorosi, io sono parte del grande mistero, sono un depositario del segreto. Mi basterebbe un urletto per ridurli in briciole e farli fuggire via a gambe levate.

Quello che invece non sanno è che adoro la loro insicurezza e benedico le loro manine tremanti mentre mi porgono gli spiccioli; perché ci sono ancora io dietro quegli occhi timorosi e incerti, è mia la voce che s’inceppa davanti a quel “grande uomo” ricoperto di farina che sa tutto della vita, ed è ancora tutto mio il dolore della loro giovinezza; così bella ma già così oscura.