Mi
hanno sempre messo tristezza gli occhi lucidi addosso alle persone
felici, meglio che lo dica subito.
Io
e Giacomo eravamo diventati amici almeno una dozzina di volte,
abitavamo nella stessa via ma ci eravamo conosciuti soltanto a
scuola.
Neanche
lui era particolarmente bravo però ci dava dentro più di me e il
suo andamento era decisamente migliore. Questo mi mandava in bestia;
era inconcepibile che uno nelle sue condizioni prendesse voti più
alti dei miei e sulla strada di casa non perdevo occasione per
rammentargli le loro umili radici, l’odore stantio della loro casa,
la disoccupazione del padre, fino a inventarmi certi avvistamenti
della sorella maggiore nella zona del porto, la sera.
Ed
erano botte, oh sì! Ce le davamo di santa ragione promettendoci a
vicenda l’uccisione, augurandoci fulmini inceneritori e decessi
famigliari.
Quando
avevamo finito di darcele raccoglievo lo zaino di terra e lo seguivo
verso casa a testa bassa perché non potevo fare altrimenti;
succedono molte più cose alle persone povere, e all’epoca mi
sembravano tutte molto divertenti.
Ero
lì quando venne il sindaco a consegnare le chiavi dei nuovi
appartamenti d’edilizia sociale. Suo padre aveva gli occhi più
lucidi che avessi mai visto addosso a uno che non sta piangendo per
via di qualche disgrazia.
Sentii
subito un cattivo sapore in bocca nel vedere quegli occhi, che poi
prese a scendere giù, nella gola e ancora più giù, andandosi a
piazzare al centro del petto trasformato in un cupo tremore: il mio
amico se ne andava quindi, e con lui se ne andavano le botte, le
minacce di morte, le perpetue riappacificazioni, ma soprattutto se ne
andava quella finestra spalancata sulle tribolazioni che tanto
m’intrigava.
Quella
sera implorai mio padre di fare richiesta per una casa del comune
accanto alla loro. Vidi i miei ridere di sottecchi; la mia sofferenza
era autentica ma non venivo preso sul serio.
«Non
ne abbiamo diritto» rispose mio padre «Quelle sono case che
spettano alle persone che hanno avuto meno fortuna nella vita» disse
proprio così “meno fortuna nella vita”. Usò una figura retorica
per descrivere lo stato dei Costantini. E io allora? Poteva esserci
al mondo uno più sfortunato di me, costretto ad assistere alla
partenza dell’unico amico solo perché troppo ricco per poterlo
seguire?
Il
trasloco durò due settimane esatte. Da dietro le tende della nostra
cucina, ogni giorno, vedevo suo padre arrivare con un’ape
sgangherata e caricarci sopra qualcos’altro. Non fu una sofferenza
violenta e improvvisa la mia, no, fui costretto ad assistere
all’espianto giornaliero di un pezzetto della felicità legata alle
cose che in quella casa l’avevano generata: il divano mezzo rotto
sul quale avevo riso come un matto guardando i cartoni trasmessi
dalla loro vecchia TV, le sedie di cucina impagliate sulle quali mi
ero seduto a dividere con loro la pentola di pasta che la signora
Costantini portava in tavola con l’attenzione che si riserva alle
reliquie dei santi.
«Ne
vuoi ancora Riccardo? » chiedeva con gli occhi lucidi di famiglia
appena vedeva il mio piatto vuoto. Anche gli altri avevano finito ma
non osavano avvicinarsi alla pentola a centro tavola prima che fossi
stato rifornito io.
«Certo,
grazie signora!» rispondevo anche se non avevo più fame. E
mangiavo, e mangiavo. Mi riempivo la bocca e mangiavo come un maiale
mentre gli altri restavano immobili a guardare, come salici
piangenti; che gente buffa i Costantini.
C’ero
anche il giorno della partenza vera e propria. Questa volta suo padre
non arrivò con la solita ape sciancata ma con un’auto vera e
propria. Non era granché, e paragonata al SUV di mio padre ne usciva
con le ossa rotte, ma bastò a svolgere il compito di accogliere le
ultime valigie e tutta quanta la famiglia.
Io
stavo immobile in mezzo alla via ad aspettare il momento in cui il
mio amico Giacomo sarebbe corso verso di me frignando di non
volersene andare.
Invece
a un certo punto, subito prima che partissero, vidi scendere
dall’auto suo padre che mi venne incontro con gli occhioni
cangianti e un sorriso storto sulle labbra.
«Lascia
perdere, eh» mi disse stropicciandomi i capelli «Non pensarci più,
ti farai dei nuovi amici. È difficile da capire alla tua età ma noi
andiamo a stare meglio, dovresti essere contento»
Guardavo
la testa del mio amico in mezzo a quelle delle sorelle sul sedile
posteriore dell’auto che andava in qua e in là dal ridere.
Ridevano e scherzavano tra loro pensando alla nuova casa, a una nuova
vita lontano dalla nostra via, mentre io avrei voluto che morissero e
basta. “Ti giri vero?” Pensavo “Girati brutto morto di fame,
almeno saluta!”
«Perché?»
«Per
noi che andiamo a stare meglio. Avremo una casa nostra se Dio vuole»
«Sì
certo, pagata da noi. Dalla gente che lavora come mio padre»
«Anch’io
lavoro se è per questo. Non è …»
«Perché
non si volta? Non mi saluta neanche? » domandai indicando l’auto.
Il
padre di Giacomo sollevò le spalle come per dire che non ne aveva
idea, ma ho il sospetto che sapesse benissimo il perché.
«Va
be' senti, dobbiamo andare» disse poi «ma promettimi che non
penserai più a noi. Mi ucciderebbe sapere che diventi triste
ripensando a noi, eh? Me lo prometti? »
Rimasi
zitto e non promisi un bel nulla. Allora li avrei pensati ogni
giorno! Ogni ora, ogni minuto, solo per farli soffrire d’ora in
poi.
L’auto
si allontanò e il mio amico non si voltò mai. Non l’ho più
rivisto.
Quando
rientrai anche mia madre mi stropicciò un attimo i capelli. A cena
si superò: tagliatelle ai funghi porcini, pollo arrosto e patatine
fritte a volontà. Mangiai fino quasi a scoppiare, e poi mangiai
ancora e ancora.
Più
tardi, a letto, rimasi a lungo a guardare l’ombra prodotta dal
lampadario sul soffitto senza riuscire a prendere sonno; sembrava
avessi un animaletto dentro, qualcosa che si aggirava frugando tra
stomaco e cuore.
A
un certo punto balzai in piedi spinto da un irrefrenabile bisogno di
agire. Andai a cercare tra gli attrezzi di mio padre e acchiappai un
cacciavite bello grande. L'affondai ripetutamente nel divano del
salotto tranciando in più punti la pelle lucida, poi mi accanii
sulla TV da cinquantadue pollici graffiando e colpendo con la punta
lo schermo. Alla fine ricordo che rimasi a lungo in silenzio, col
cuore che mi batteva all’impazzata e il cacciavite in mano a
osservare soddisfatto l’opera.
I
miei non arrivavano a sgridarmi nonostante il baccano, se la
dormivano della grossa. Mi travolse come una piena l’idea che
probabilmente ero l’unico sveglio in tutta la strada, forse
addirittura in tutta la città: un bambino ricco e fortunato. Poi
d’improvviso, senza avvertimento alcuno, arrivarono le lacrime.
Piansi per un bel po' ricordo, in piedi al centro della stanza; un
pianto strano, senza dolore, senza commozione, simile a un lungo
spurgo.