giovedì 1 maggio 2014

Non parlare mai di me








Che una cosa sia ben chiara fin dall’inizio: non sono stato io a uccidere la signora Larson. Nossignore.
E sebbene tutto faccia pensare il contrario, io confido in voi. Sì, proprio in voi che state leggendo queste righe, perché vi facciate carico di diffondere la verità che adesso vi vado a illustrare.
Io arrivai di notte. Le cicale frinivano per il gran caldo, la luna era alta in cielo, e non c’era anima viva in giro. E dopo tutto chi poteva esserci? 1012 abitanti, c’era scritto sul cartello appena sotto la dicitura “Clearenceville”. L’Idaho è famoso per le patate, ma io l’avevo scelto perché avevo sentito dire che le persone ci sparivano in continuazione nell’Idaho, soprattutto in quello del nord.  Ci arrivai un po’ in autostop, un po’ sul rimorchio di un autocarro, l’ultimo pezzo, lo feci strisciando tra i campi coltivati a mais, che da queste parti va per la maggiore insieme alle patate. Insomma; no, non trovai il comitato di benvenuto ad attendermi, trovai invece lo sceriffo Pierce.
«Cristo Santo figliolo. Da dove arrivi? »
«Da dove non lo rammento. Ma so dove volevo arrivare»
«Be’, non puoi certo andare in giro in queste condizioni. Hai soldi in tasca? »
«Non mi servono soldi sceriffo. Mi serve un prete»
«C’è il vecchio Stewen che fa anche da pastore nella nostra piccola comunità. Ha la mesticheria giù all’angolo, lo trovi aperto di giorno però, adesso sarà sicuramente a divertirsi con la Signora Maddle. Magari lui può aiutarti. Cos’è che vai cercando? Perdono? Redenzione? Assoluzione? »
«Non intendo discutere di queste questioni con lei signore. Adesso, se posso…»
«Dovresti farti controllare quella brutta ferita. Cos’è, una ventidue? »

Non risposi, ripresi il cammino finché non trovai il negozio del prete, e mi ci buttai davanti a dormire.
Venni svegliato diverse volte nel corso della notte. Seppur piccola, Clearenceville, poteva vantare un’attività notturna piuttosto movimentata. Contai almeno quattro o cinque amplessi diversi consumarsi all’interno delle finestre che facevano da cornice al mio misero giaciglio, e tutti piuttosto rumorosi a dire il vero.  Orde di gatti randagi s’inseguirono in continuazione fino all’alba, e quando alla fine crollai in un sonno senza peso, fu il piede del Signor Stewen a svegliarmi.
«Cristo Santo figliolo. Da dove arrivi? »
«Da lontano, cercavo lei»
«Me? »
«Sì, proprio lei»
«Non c’è niente che posso offrirti che non troveresti in altre mesticherie della contea. Non sono specializzato in niente io»
«Non sono qui per lavoretti domestici signore».
«Ah, capisco. Allora entra pure» disse il Signor Stewen.
Il locale era piuttosto ampio, molto più di quello che mi aspettavo. L’odore mi mise addosso una strana malinconia: cantina, oscurità e gomma da masticare.  Il Signor Stewen girò il cartello alla porta e da dentro lessi la scritta “open”.
«Bene» disse allargando le braccia «dimmi tutto».
«Non indossa nulla? Voglio confessare davanti a un prete»
«E questa ti sembra una chiesa? »
«Non parlerò allora»
«Aspetta qui» disse allora il signor Stewen prima di scomparire nel retrobottega.

Un’enorme ventilatore a soffitto dondolava placido come sotto la spinta di qualche folletto invisibile. Il calendario a muro aperto sul mese di Luglio. Un poster con una casetta bianca e colline fiorite finché se ne potevano contare subito dietro. “Idaho, il cuore della faccenda” c’era scritto, e in basso la bandiera dello stato: un cervo come presidente, un minatore e una bella figliola in vestaglia. Mi parve un bel posto per vuotare il sacco.
il signor Stewen tornò sfoggiando un bell'abito abito talare. Mi venne in mente che non ne avevo più visto uno da quando avevo fatto la prima comunione.
«Sono inseguito» iniziai
«Tutti lo siamo no? Chi dalla sfortuna, chi dai guai, chi dalla propria coscienza»
«Be’, a me m’inseguono degli uomini»
«ah» fece perplesso il prete «quel buco lì suppongo sia opera loro» disse indicando il foro bruciacchiato sulla mia camicia
 «Una ventidue. Roba da donne»
«e non fa male? »
«Non più»
«E cos’è che ti fa male, sentiamo»
«Mi chiamo Vin, prete. Vin Patterson» L’enorme ventilatore sopra le nostre teste cigolò.

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Un istante dopo gli occhi del prete percorrevano  in lungo e in largo il negozio, mappandone ogni particolare, ogni oggetto, evidentemente alla ricerca di una via di fuga o di un’arma improvvisata. Le pupille apparivano molto più grandi di poc’anzi, simili a quelle di un gatto molto impaurito. Vidi Il sudore imperlargli la pelle del labbro superiore, poi parlò:

«Cristo Santissimo, ti descrivono più basso».
«Mi descrivono in tanti modi. Nessuno corretto come può vedere»
«Dicono anche un’altra cosa…»
«Sì lo so prete, ma per adesso non pensiamoci».
«Allora, figliolo. Cosa posso fare per te»
«Sono vittima di un grosso equivoco»
«Sono sicuro che sia così» disse appoggiando con fare solenne il mento sul petto «sono sicuro che sia così» ripeté piano, sollevando in aria le mani.
«Crede che questo la salverà? »
«Che cosa figliolo? »
«Trattarmi con condiscendenza»
«oh no… non era mia intenzione»
«Be’ non dovrebbe proprio farlo. Ecco vede, il fatto è che non sono stato io a uccidere la signora Larson. Mi attribuiscono tante cose non vere, sa? » il prete allora annuì senza parlare «Come quella brutta storia di Riverside, ricorda? Che grandissimo casino. Le pare possibile che un uomo solo possa combinare un macello come quello? »
«Un uomo? No. Ma dimmelo tu figliolo»
«Mi chiami Vin per favore, solo Vin. Mi fa sentire meglio. No. Glielo dico io, glielo dico. Nessun uomo è capace di combinare un casino come quello, non da solo almeno».
«Tu credi in Dio, Vin? »
«Io credo nelle coincidenze»
«Non dev’essere facile vivere così: senza Dio»
«Le dico io qualcosa a proposito di Dio, padre. Ci ho provato sa? Ah, se ci ho provato. Una volta, per esempio, avevo un cane: Melody l’avevo chiamato. E anche se il nome non mi sembrava giusto per un maschio, gliel’avevo messo perché quando abbaiava sembrava cantare, ce l’ha presente? Era una buona bestia, l’unica cosa al mondo riuscisse a darmi un po’ di conforto quando il whiskey sembrava diventato acqua e le notti si facevano troppo buie, perfino per uno come me. Il vecchio Melody era un animo gentile, sa?  Gli piaceva andare in giro per la campagna in cerca di persone e animali con i quali socializzava un po’ prima di tornare da me quando scuriva. Aveva una paura fottuta dei tuoni. Se c’era una cosa che lo faceva impazzire erano i tuoni. Chissà che dovevano sembrare quegli scoppi enormi a quel cervellino di cane. Be’, un bel giorno il povero Melody si ritrovò nel bel mezzo della campagna sotto un temporale come non se ne vedevano da anni. Me lo immagino, sa? Con le orecchie abbassate e il muso che sfiora il terreno, il naso umido ingrandito dalla paura, tutto solo là fuori a piangere, senza di me. Nella sua testaccia di cane sono certo di essere apparso in quel momento. Avrà pregato a modo suo che arrivassi a salvarlo. Povera bestia.  Trovò rifugio sotto un albero. Quando mi telefonarono il mattino seguente mi dissero che l’avevano trovato come dire? “Fuso” al tronco. Si era sciolto povero Melody, il fulmine aveva centrato in pieno l’albero, hanno capito che era lui per via dei pochi peli rossastri sparpagliati intorno. Non ho avuto nulla da seppellire.»

«E questo pensi sia opera di Dio? » chiese il prete cercando di apparire tranquillo.
«No. Una coincidenza» risposi «Quella nuvola aveva viaggiato chissà quante centinaia di chilometri prima di incontrare un’altra nuvola e far partire la scintilla che poi si è scaricata sull’albero sotto il quale era andato a rifugiarsi il mio povero Melody. Proprio come la mia presenza qui adesso. Sarei potuto sbucare da quel campo di mais in un’altra cittadina, ma il caso ha voluto che sbucassi a Clearenceville e che proprio lei sia il pastore di questo piccolo gregge» sorrisi.
«Quindi…» Gli occhi del prete si spalancarono ancor di più «Non è me che cercavi, ma un prete qualsiasi».
«Esatto. Il caso, le coincidenze, Dio? Qualsiasi cosa sia stata adesso siamo qui, io e lei. Niente di preordinato, niente di personale. E questo ci porta dritti dritti al motivo della mia visita prete. Vede, io non credo nella giustizia degli uomini, ma credo in una giustizia “superiore”, per intenderci. Non so se possiamo scomodare addirittura Dio, ma sono giunto alla conclusione che tanto vale provarci, e se a questo mondo c’è qualcuno in grado di arrivargli proprio davanti, dev’essere per forza un prete ho pensato».
«Quindi è un’assoluzione che cerchi. Sono pronto a confessarti. Dio ha il cuore grande. Qualsiasi cosa tu…»
«Sì, certo prete. Ma lei deve fare anche un’altra cosa»
«Che cosa? »
«Insieme alla confessione deve recapitare anche un messaggio».
«Un messaggio? E a chi? »
Non risposi direttamente alla domanda. Sorrisi, posai lo sguardo sul lungo abito talare, poi lo passai alla croce sul petto, quindi tornai a fissarlo negli occhi lasciando intendere la risposta.
«Ma perché? Perché deve succedere tutto questo? » domandò il prete «Non è troppo tardi figliolo» si passò una mano sulle labbra per asciugarle.
«Ah, ma io non posso farlo. Lei sì, lei ha un filo diretto per così dire».
«Ma questa è pura follia»
«Cos’è? Ha paura forse? Ha paura che non troverà nessuno dall’altra parte ad aspettarla a braccia aperte? Ha paura per chi resterà? Per la signora Maddle? Be’ le dico io cosa succederà. Quando lei morirà le cose continueranno ad andare proprio come sono andate fino a ora. Non ci sarà nessuna interruzione, nessuna percettibile modifica. La signora Maddle alla fine se ne farà una ragione e si troverà qualcun altro, magari più giovane di lei. I nipotini piangeranno per qualche giorno il nonno Stewen ma poi anche loro se ne faranno una ragione. Il mondo andrà avanti senza di lei: sempre una cosa davanti a un’altra, sempre qualcuno dopo qualcun altro. Cambieranno i fiori sulla sua tomba certo. Oh, lo faranno sì, da buoni cristiani. Lo faranno per qualche mese, o forse anno, poi alla fine si stancheranno, e di lei, di tutto ciò che è stato e del suo ricordo, non resteranno che un mucchietto di fiori appassiti sotto una foto sbiadita dal sole» Il prete non disse più nulla, credo che a quel punto fosse già morto.
«Non ho ucciso io la signora Larson glielo dica per favore, e per quanto riguarda l’altra questione è tutto vero: nessuno vive dopo avermi sentito pronunciare il mio nome».
«Aspetta figliolo, questo non ha senso. Ascoltami posso…»
«Pensa a qualcosa di bello prete» dissi. Non credo abbia visto il luccichio perché l’istinto l’aveva portato a chiudere gli occhi. Dicono che prima di morire si vede una luce che via via diventa sempre più intensa prima di trasformarsi in un bianco accecante che ha il potere di rassicurare. Dev’essere andata proprio così perché il prete lottò appena prima di abbandonarsi a quella luce assordante, che dev’essere sopraggiunta insieme alla consapevolezza che qualsiasi tentativo di resisterle sarebbe stato vano.

mercoledì 19 marzo 2014

Teresa







«E’ davvero una miseria»
«E’ il contratto nazionale Signora. Non è che li scrivo io nel retrobottega»
«Sì, ma ciò non toglie che sia una miseria. Non trova? »
L’uomo appoggia le spalle alla sedia, poi gonfia il petto prima di parlare «Senta signora. Vediamo se ci intendiamo. Ho altri diciassette candidati per quel posto. Se per lei non va bene basta che me lo dice. Io capisco tutto, sa? E sì, sono d’accordo con lei che in effetti …»
«No, no. Accetto, ci mancherebbe» dice Teresa
«Ah, bene bene. E per quell’altra questione invece è no. Non può venire a trovarlo nell’orario di lavoro»
«Ma voglio essere sicura che faccia tutto per bene. Prima il sapone, poi il panno. Movimento circolare» Teresa fa cenno col braccio sorridendo «sono settimane che facciamo le prove in casa. E’ bravo sa?>>
«Non si può. Non si preoccupi signora, abbiamo persone molto qualificate per istruire i… le persone svantaggiate»
«Stava per dire i ritardati, vero? »
l’uomo abbassa lo sguardo «… Ecco»
«Non c’è problema, sa? Mio figlio non è ritardato, ha solo bisogno di iniziare da qualche parte»
«Allora a lunedì. Mi riporti questo firmato dal ragazzo»
«A lunedì» risponde Teresa, mentre un sorriso orgoglioso sembra illuminarla per intero attraversandola in perpendicolare appena le dita sfiorano il contratto di lavoro del figlio.
Le sembra di volare. Be’ non proprio, è più una sensazione di galleggiamento di sospensione. Il tram le scivola accanto avvicinandosi alla fermata. L’istinto la predispone alla corsa, ma poi decide di camminare ancora un po’e di salire a quella successiva; c’è tempo. La giornata è così bella. I pensieri, come bollicine nell’acqua gasata, si staccano dal fondo e salgono su presentandosi tutti belli e colorati, pronti a farla stare ancora meglio “ tutti hanno iniziato pulendo i tavoli” pensa “poi li passano in cucina, poi diventano Manager se dimostrano di le avere  capacità e poi… “Al pensiero gli occhi brillano di una luce particolare nell’aria frizzante di Febbraio  “poi li mandano su: negli uffici. Peccato non sia voluto venire, devo sforzarmi di farlo uscire, staccarlo da quel maledetto televisore” Sale sul tram e si siede accanto a una coppia di giovani fidanzati. Li sente parlare, li sente ridere.  Poggia la borsa sulle ginocchia e se la stringe al petto “ Stai a vedere che mi tocca anche trovargli una fidanzata alla fine” la considerazione le strappa un altro  sorriso . Apre di nuovo la borsa. Il contratto è lì: reale, concreto.  “ Addetto pulizie. Periodo prova tre mesi. Invalidità riconosciuta 57%. Anni 24. Assunzione obbligatoria quote di riserva…  “ Con una scossa il tram inizia a muoversi, Teresa sistema la gonna sotto le cosce poi sospira soddisfatta.
                                                                                        °°°
«Buongiorno signora Lanini» dice rivolta alla signora in ginocchio con la testa in mezzo ai fiori del piccolo giardino condominiale che introduce al portone del palazzo.
«Buongiorno Teresa» risponde l’altra alzandosi a fatica «Guardi qui, tutto rovinato» dice indicando  le azalee mezze morte. «Qualcuno dovrà dirlo all’amministratore. Pisciano da tutte le parti. Quanti gatti avrà adesso? Io ne ho contati almeno dieci. Se non di più»
«Sì, da quando le è morto il marito…povera Marta».
«Sì, sì, certo. Io capisco, sa? Anche a me è morto il marito tanto tempo fa. Ma le piante sono mie. Ci metto tanta passione»
«Guardi cosa ho qui» dice Teresa strizzando gli occhietti umidi, mentre tira fuori il contratto dalla borsa.
«Cos’è? »
«Il contratto di lavoro di Luca. Inizia lunedì. Guardi, guardi. C’è  il suo nome in maiuscolo»
«Oddio Teresa. Sono così felice per voi. Lei e suo marito, ve lo meritate proprio. Non dev’essere facile»
«Cosa signora Lanini? » domanda Teresa  determinata a non spegnere il sorriso
«No, intendevo… Guardi qui! Anche sulle rose! Ma che fanno? Si arrampicano sull’inferriata apposta per farcela sopra?»
«Vado, la lascio al suo lavoro»
«Arrivederci Teresa»
Si sorprende a fischiettare un motivetto sconosciuto mentre aspetta l’ascensore. Un’altra bollicina si stacca dal fondo e risale senza peso fino a concretizzarsi nella mente sotto forma d’immagine. E’ quella dei futuri colleghi di lavoro del figlio, che con l’andare dei giorni iniziano a scambiarsi tra loro occhiate d’intesa via via che prendono coscienza delle qualità di Luca, arrivando a litigarselo addirittura «Dovresti proprio passare in cucina sai? Ci farebbe comodo uno come te»  «Senti Luca, ho visto come lavori e mi sembri sprecato qui sotto. Se vuoi metto una parolina per te, su in ufficio. Anche se non ci capisci di contabilità, uno come te impara in fretta. Sono sicuro»
«Luca, Luca! » urla entrando in casa. Luca non risponde. Le arriva invece chiara dal salotto la sigla iniziale di Spongebob, alla quale sarebbe ormai in grado di appiccicare, ad ogni nota, il relativo fotogramma per tutte le volte che l’ha vista e sentita seduta in silenzio accanto al figlio. Guardava la sua bocca sempre mezza aperta in un’espressione di stupore involontario, le mani sempre nella stessa posizione: diligentemente poggiate sulle cosce mai accavallate.
«Guarda qua» dice Teresa infilando il contratto proprio sotto il mento del figlio. Luca distoglie gli occhi dalla Tv, guarda appena il foglio, poi fa «ah»
«Sai cos’è? E’ il tuo contratto di lavoro. Inizi lunedì» Luca scuote la testa senza proferire suono “no,no,no!” ma poi poco alla volta si calma sentendo la mano della mamma sui capelli «Ci sono un sacco di ragazzi simpatici sai? » sussurra Teresa alle sue spalle «Chiedono tutti di te. Ma Luca dov’è? Quando inizia? Vogliamo Luca! Luca! Luca! Luca!» dice imitando un vocio euforico collettivo e continua ad accarezzargli i capelli e a parlargli, finché lui non si calma del tutto. Poi Teresa s’inginocchia alla sue spalle, gli passa un braccio intorno al collo e dopo aver poggiato la testa sull’ampia schiena del figlio, dice piano «Devi proprio smettere di fare la pipì dal balcone, sai?»                                                                                     °°°
    C’è un party come si dice adesso. Qualche bambino compie gli anni. Si sentono le urla: eccitate, isteriche, fuori scala,  di bambini lasciati liberi di scatenare tutta la vitalità che preme e sbatte con ferocia, compressa in quei piccoli corpicini affamati d’allegria. Luca non si vede. E’ la prima volta che capita una festa in dieci giorni. Le cose sono andate bene fino a oggi. Non si è persa neanche un giorno, non possono certo cacciarla se sta fuori senza farsi notare. Sono stati carini sì, ma allo stesso tempo fermi, spiegandogli cosa volevano che facesse. Luca annuiva e poi faceva  quello che gli avevano chiesto di fare, ancora un po’ sulla difensiva, ma lei sa che presto comincerà a fare di testa sua e che i colleghi inizieranno a darsi di gomito entusiasti.
     Ma adesso il suo bambino non si vede. A dire il vero non riesce a vedere quasi niente. La condensa ha formato una specie d’intonaco opaco dietro la grande vetrata e, soltanto quando qualche goccia troppo carica scivola giù trascinando con se altra umidità, Teresa riesce a intravedere qualcosa. Alla fine lo vede: seduto in fondo al locale, con quella bella uniforme nuova marrone e gialla. “Oh, no! No! Dai Luca su… non fare così alla mamma, ti prego! Sono solo bambini che giocano, non avere paura” Luca non fa niente. Sta fermo con gli occhi fissi sul party. Forse vorrebbe unirsi a loro? Più probabile che quell’esuberanza, quella involontaria ostentazione di vita, lo mettano a disagio. “ Ti voglio bene cucciolone. Su dai, alzati e fai il tuo lavoro . Movimento circolare, come ti ha insegnato la mamma, eh? Sapone, panno… “ Come se l’avesse sentita Luca si alza. “Ma che fa? “ Si avvia verso i bambini. Teresa sente il cuore perdere un battito “Dio mio, no Luca,  sono piccoli…    Luca afferra un vassoio, poi un altro, e poi un altro ancora. Ci mette sopra i contenitori vuoti che le mamme gli porgono via via, proprio come un annoiato cameriere di   fast-food in un normalissimo giorno di lavoro. Teresa osserva la scena con i palmi delle mani incollati al vetro e gli occhi lucidi. Avrebbe voglia di urlare “Quello è mio figlio! Il mio bambino!” Ma non può farlo,  ne andrebbe della carriera di Luca. E allora resta lì, silenziosa, con gli occhi incendiati d’amore e il cuore aggrappato alla speranza di un futuro fatto di cose normali per il suo bambino.











mercoledì 26 febbraio 2014

Il tempo confonde i tuoi contorni





«Ti spiego» e detto questo se ne partiva con una di quelle palle tediose che non andavano mai da nessuna parte. Di sicuro la persona meno indicata per dare spiegazioni, era capace di tenerti anche mezz’ora lì, nel vano tentativo di mettere insieme un qualche concetto sensato, qualsiasi cosa si potesse definire frutto della logica, per poi finire sempre lì; naufrago in mezzo al mare delle sue stesse parole. Un incapace, ma senza la modestia che almeno si richiede loro. Una nullità piena di boria; ecco cos’era.  Quando Enzo mi chiamò per dirmi che sarei dovuto andare con lui a proporre i nuovi prodotti su a Chiasso gli dissi «Cazzo no. Non puoi mandarmi fin lassù con quello»

«Perché? Poverino dai, è simpatico. Vi fate un bel viaggetto. » rispose con la voce velata dall’ironia

«Non lo sopporto. E’ una testa di cazzo. Mi spiega sempre tutto» sentii che rideva dall’altra parte, anche se cercava di non farsi sentire «Dammi Luca, dai» dissi allora cercando di farla sembrare una supplica  «Almeno lui non dice mai nulla, sembra morto, e se ti guarda lo fa solo per ascoltare»

«Luca è in Ungheria. Senti, Gianni…» iniziò quello che sembrava dover essere un bel discorso conciliatorio ma poi, o perché non si ricordava cosa stava per dire, o perché gliene mancò la voglia lo tagliò subito. «Allora mi raccomando, portatemi almeno tre contratti firmati. Lascia parlare lui allora, se è così bravo a spiegarle le cose» terminò la frase con la voce rotta dal ridere e riattaccò.

Partimmo un venerdì mattina infradiciato da una pioggerella insignificante. In cielo borbottavano in continuazione tuoni senza pretese e l’asfalto, quando il sole riusciva a bucare l’abbraccio di nuvole, risplendeva lucido come l’interno di una conchiglia. Mi sorbii almeno un’ora di musica anonima, che il mio compagno di viaggio sembrava scegliere in base al colore delle auto che ci sorpassavano. Se erano derivazioni  cambiava canale, se invece erano colori primari la radio restava sintonizzata su quella stazione. Ma poi giudicai la mia una valutazione troppo assurda per essere reale. E comunque il giochetto – se di giochetto si trattava - sembrava intrigare il mio collega/autista, e finché se ne stava zitto a modulare le leggi della sua dittatura radiofonica, a me andava benone.

«Lo sai che c’è? » disse a un certo punto abbassando il volume della radio. “Eccoci” pensai… “non siamo neanche a Bologna”

«No. Non lo so che c’è. Dimmelo tu che c’è»

«C’è che sono circondato da giovani. Prima quando mi guardavo intorno vedevo solo vecchi, adesso vedo… » lo interruppi

«Oddio, senti» dissi «Non è che mi parti con una di quelle storie  sul senso della vita, o del perché… »

«No, tranquillo» rispose lui «non fosse mai» aggiunse staccando la mano destra dal volante, sventolandola in aria come per scusarsi.

«No, perché oggi proprio non ce la faccio»

«Gianni, ho detto tranquillo. Vuoi stare zitto fino a Chiasso? Va bene per me. Non dico nulla, tu non dici nulla, ci facciamo questi seicento chilometri in silenzio, ognuno pensa ai fatti suoi, eh? Seicento ad andare e seicento a tornare» Non risposi, per me andava benissimo. Rialzò il volume della radio e io tornai a studiare i fogli promozionali dell’azienda. Gli devo dare atto che ci provò. Riuscì a non aprire bocca per almeno un’altra ora perché quando lo fece c’eravamo lasciati alle spalle da un pezzo Parma.

«Almeno lasciami raccontare che mi è successo sabato sera. Questo lavoro di merda… siamo sempre soli, e per una volta che viaggio insieme a un altro» lasciò la frase in sospeso mettendo su un’espressione un po’ offesa «tu non hai voglia di parlare» terminò. Non dissi nulla, perché tanto sapevo che non si sarebbe fermato.

«Insomma, ero stato a mangiare in quel locale dove fanno Karaoke, no? Dove prima c’era una pompa di benzina. Quello dove poi a una cert’ora si può anche ballare.  SI chiama Garden, o Gardenia, o qualcos’altro. Al buio non si legge bene quell’insegna» fece una breve pausa poi riprese a parlare «ero solo perché… perché, non lo so perché ero solo. A dire il vero mi sto vedendo con una tipa là dentro, ma il nostro rapporto è ancora agli inizi. Ci guardiamo e basta, non ci siamo mai parlati per ora» poi si bloccò e fece un gesto d’irritazione con la mano, come se cercasse di concentrarsi su quello che davvero voleva dirmi, come fosse al corrente  di quel nomignolo “girovago del nulla” che gli avevo affibbiato, per il suo parlare a vanvera e senza costrutto «Sì, ma questo non è quello che volevo raccontare cazzo» io non alzai neanche la testa, continuai a fingere di leggere «insomma, stavo tornando a casa dal Gardered , ok? Guidavo piano sai? Avevo un po’ bevuto, e tutto a un tratto, sul viadotto della colonna, vedo un gatto steso in mezzo alla strada.  Accosto l’auto, era tardi non c’era nessuno in giro, e scendo. Il gatto sembrava proprio morto stecchito, no? Insomma, immobile, con gli occhi aperti. Mi sono chinato sulle ginocchia e ho fatto per toccarlo. Quello che è successo dopo non riesco ancora a spiegarmelo. Il gatto ha fatto un salto per aria e non so come, è volato di sotto. Quanti saranno? Trenta, quaranta metri quel viadotto? Ecco, dimmi tu…» risi dentro di me ma feci finta di nulla. “Queste cose assurde succedono solo a gente come lui” pensai. «Ti rendi conto? »riprese poco dopo «Che gli avrò fatto di male io? Ora me lo sento sulla coscienza. Volevo aiutarlo e invece l’ho ammazzato» Annuii appena come per fargli capire che avevo ascoltato tutto, e che sostanzialmente ero d’accordo con lui sul fatto che non avesse colpe «riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» Aggiunse  guardandomi. Anch’io allora lo guardai, e rimanemmo un po’ così in silenzio; a guardarci.

«Tu mi odi vero Gianni? » disse poi

«Dovrei? » risposi io

«Sì, ma ormai no. Cioè, sono passati quasi nove anni… » disse sempre facendo quel verso con la mano assolutorio «Fu lei cazzo, non io»

«Perché tu dov’eri? »

«Sì, cioè, c’ero, è ovvio, e ti ho già chiesto scusa. Ma fu lei a iniziare ripeto, non io»

«Fermiamoci al prossimo autogrill per favore. Devo andare in bagno» risposi.

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Il parcheggio è ampio, le macchine sono poche. Si chiama “Villa Garden Plaza” si vede che sei anni fa, quando ci venne il mio collega l’insegna aveva diversi neon fuori uso. «Oh, ma che avete combinato» mi disse Enzo quando tornammo da Chiasso porgendomi la mano «Perché? » risposi «E’ andata bene, no? » «Ha dato le dimissioni, se n’è andato» rispose «non mi ha spiegato il perché. Se n’è andato e basta» anche allora non dissi nulla. Feci spallucce.

L’atmosfera all’interno è piuttosto allegra; mi siedo e ordino una birra. A parte una comitiva di bambini alla mia destra, per il resto il locale è prevalentemente occupato da single. Uomini e donne che seguono una metodica di comportamenti inesorabili: si guardano si fiutano si fronteggiano e infine riducono le distanze. Poi capita anche a me. Non è molto bella, ma è giovane e forse spensierata quanto basta. Mi avvicino. Mi presento, si presenta. E’ in compagnia di amici, come lo siamo tutti qui dentro suppongo, ma al momento è sola, chissà dove sono finiti quei burloni. Porta la fede vedo, ma appena si accorge che la sto guardando, con un movimento rapido cela la mano dietro al braccio destro poggiato sul bancone del bar. Parliamo un po’,  io faccio l’avvocato. Poi spingo il piede sull’acceleratore e lei non frena, anzi.  Mentre ci baciamo, uscendo, non riesco a trattenermi e le afferro la mano; quella mano. Quella che di sicuro il marito le avrà sorretto all’altare infilandole l’anello. Non pare accorgersi della soddisfazione che provo mentre le spingo la lingua quasi fino in gola e allo stesso tempo saggio la consistenza di quella promessa d’amore eterno. «Riesco sempre a rovinare tutto, cazzo» forse anche lei, un giorno, reciterà al marito questa bella frase a effetto, penso soddisfatto.