<<Ci sono i pomodori in offerta alla coop>> dice lui cambiando canale alla tv.
<<che hai detto?>> Anna volta appena la testa fermando per un attimo le mani. Il sapone nel lavello ha un buon odore di limone.
<<Ci sono i pomodori in offerta alla coop. Tutta la settimana>>
<<ah>> risponde lei, e di nuovo, sente morire la speranza.
Poi riprende il lavoro. La scena è sempre la solita. Lei lava e la vita che va avanti, subito dietro, intorno al tavolo. Le stoviglie sono diminuite di pari passo con l’andare degli anni. Prima il lavello era sempre pieno, adesso non sa più neanche se valga la pena usare tutto quel sapone. Le carote lesse poi non sporcano, sono gentili, sembra si siano accorte da un pezzo di essere cibo per vecchi e si comportano di conseguenza. Vanno via leggere leggere, quasi senza lasciare traccia.
Lei lavava e gli altri ridevano e scherzavano, parlando di quello e di quell’altro seduti attorno al tavolo. Poi, il primo scricchiolio. Il figlio grande che non vuole più uscire con loro il sabato sera. Quindici anni, eppure sembrava appena il giorno precedente che se lo portava in braccio per casa cantandogli canzoncine piene di fate e topolini affamati per farlo addormentare, oppure ai giardini con le amiche subito dopo la scuola, dal dottore a fare il vaccino. E non c’è nulla da fare. Che gli dici? Lo obblighi forse a uscire con i genitori al sabato sera solo perché vuoi perpetuare all’infinito quello stato di grazia che ti si è creato dentro, mentre sai benissimo, essere nell’ordine naturale delle cose arrivi a una conclusione?
Poi anche l’altro inizia a fare le sue giuste rimostranze, un po’ prima però, incoraggiato dalla sommossa del maggiore, come a dire “in fondo si può tentare. Sono carne e ossa anche loro, solo più grandi “. E finiscono per ritrovarsi soli il sabato sera, lui e lei, come all’inizio di tutto, quando non avrebbero barattato l’unione delle loro solitudini con niente al mondo.
<<Si potrebbe andare al cinema>> aveva tentato lui un paio di volte con poca convinzione <<si… ma non c’è niente d’interessante>> aveva risposto lei. E allora avevano finito per starsene in casa, a sentirli respirare attraverso i muri, ad ascoltarli fingendo di fare altro, a godersi quel che rimaneva del loro intero, del tutt’uno che era cresciuto a loro insaputa insieme ai figli, e che soltanto adesso, spinto dalla forza inarrestabile e indisciplinata di una sacrosanta adolescenza, si rivelava per ciò che era: Un’autentica necessità.
<<Abbiamo fatto il ciclo vitale oggi a scuola>> le disse una volta in macchina il grande. Se lo ricorda alla perfezione quel giorno Anna . Samuele aveva otto anni e non stava fermo un attimo.
<< ah si? E che cos’è, sentiamo>> gli aveva chiesto lei guardandolo con quel sorriso paziente che fanno sempre i genitori quando chiedono ai figli piccoli di spiegar loro qualcosa che sanno già.
<<Allora… >> aveva detto lui iniziando a gesticolare, per dare ulteriore supporto alle parole <<Gli esseri viventi, cioè l’uomo, e anche tutti gli animali… insomma; nascono, crescono, si riproducono, e poi muoiono>> e le aveva spiattellato con la brutalità disinteressata che solo un bambino riesce ad avere quella verità, così assoluta e indecente. Trentotto anni ed era già a tre quarti del cammino.
<<ah>> aveva risposto lei fingendosi impressionata, con il labbro inferiore che intanto era sgusciato in avanti. Aveva acceso il tergicristallo ricorda, un gesto involontario, istintivo, come per lavar via quelle parole . <<Non piove mamma!>> aveva esclamato lui scoppiando a ridere.
<<che scema>> e si era messa a ridere anche lei, mentre una carezza leggera e macabra le scendeva giù fin dentro l’anima e metteva radici, facendo germogliare i primi sentori di un futuro inevitabile.
Ma la vita c’era ancora a quei tempi, eccome. Erano relativamente giovani lei e il suo Bruno, e il “ciclo vitale” della scuola, non contemplava il lento e confortevole invecchiamento dell’essere umano, che modella a suo piacimento l’ambiente e gli anni a venire prima di arrivare al naturale epilogo. E poi comunque c’erano i piatti che erano ancora gli stessi. Quattro scodelle, posate, bicchieri, piatti e tutto. La lavastoviglie? Per l’amor del cielo! Il bello era stare lì, con le mani in ammollo e sentirli ridere e scherzare, guardando soddisfatta la mattonellina verde e blu proprio sopra il miscelatore, che ormai conosceva a memoria.
Erano giovani ma il futuro si era appostato poco più in là, con le sue lunghe ombre e lo sguardo perso in quel nulla che porta dritto alla vecchiaia. C’erano arrivati di gran carriera ognuno seguendo la propria strada, guardando i figli crescere e infine andarsene, disseminandola di ricordi che servivano per ancorarsi a quel poco che rimaneva da vivere, a ricordargli chi erano, da dove erano arrivati. E l’arrivo era proprio lì dove erano partiti insieme tanti anni addietro. Lei al lavello, e lui solo, seduto al tavolo a guardare la tv.
Poi è ovvio che ci si ammala. I vecchi sembra non riescano a fare altro. Ricorda il tonfo, il rumore dell’armadietto con i medicinali che viene giù, e lui lì disteso in bagno con la bava alla bocca. Un anziano di settantadue anni con mezzo corpo irrigidito che farfuglia il nome della madre. L’ospedale, la scarsa attenzione dei medici, i troppi, veramente troppi ringraziamenti che aveva elargito a chiunque avesse mostrato un minimo interessamento per la sorte del suo Bruno.
<<Mi raccomando la terapia, eh?>> le aveva detto il dottorino abbastanza giovane da poter essere suo nipote <<Gli esercizi sono fondamentali per riacquistare un po’ di tono>> e lei che non riusciva a pensare ad altro mentre lo guardava “Ma perché mi urla così? Io non sono sorda” <<Vedrà che nel giro di un paio d’anni suo marito >> ma poi si era fermato << Insomma lei capisce…. >> aveva detto il ragazzetto annuendo con scarsa convinzione, porgendole il foglio da firmare per la dimissione.
Certo, aveva capito. L’aveva lavato, pulito, nutrito, cambiato, ci aveva parlato mentre lui, perso chissà dove fissava immobile la TV. Gli aveva parlato del primo incontro, del loro primo viaggio in auto su quell’autostrada appena finita di costruire. E com’era bello il suo Bruno, con quei capelli al vento che le facevano pensare alla foto di quel bel poeta anarchico Francese che sembrava pronto a regalare a chiunque l’avesse fatto innamorare tutti i sogni del mondo. Gli aveva parlato della nascita del primo figlio, di come avevano riso più tardi tornando a casa, ricordandosi che in preda al panico lui invece di svoltare per l’ospedale aveva tirato dritto, puntando verso la collina dove erano soliti fare i picnic. E del secondo parto, quando l’ostetrica aveva deciso che il bambino poteva anche nascere lì, in sala travaglio <<Se lei mi da una mano lo facciamo nascere qui, non importa neanche andare in sala parto>> gli aveva detto l’ostetrica. E lui voltandosi con quel faccione così buono e i capelli da poeta aveva annuito felice, con le lacrime agli occhi, poi parlandole con il solo movimento delle labbra senza fare alcun rumore le aveva detto <<Ti amo Anna. Oddio, quanto ti amo>>
Lei parlava accarezzandogli la mano, ma non succedeva mai niente, qualcosa se l’era preso e portato via, lasciandosi dietro soltanto il guscio.
Poi era iniziato il dolore. Da prima piano, lo sentiva avanzare con la lentezza meticolosa di chi ha a disposizione tutto il tempo, dando segnali contraddittori, vigliacchi. La malattia aveva schierato le truppe come un consumato stratega prima di iniziare l’attacco vero e proprio. E l’attacco era avvenuto proprio come se l’era aspettato; di notte, come succede in guerra. Aveva fatto piano per non svegliare il suo Bruno, era corsa in bagno stando attenta a piangere senza farsi sentire, tenendosi una mano all’altezza dello stomaco. Ma il mattino l’aveva trovata di nuovo lì, al suo posto, accanto al suo Bruno.
Era durato quanto? Un paio d’anni? Di più? Era dimagrita, la pelle era arrivata ad assumere la consistenza della cartapesta, la carne aveva abbandonato gli zigomi che avevano preso a sporgere ai lati del viso come monconi di qualcos’altro. Ma non aveva ceduto. Con il ventre in fiamme, senza fiato, semincosciente, il mattino la trovava sempre lì, al suo posto, accanto al suo uomo malato. C’erano giorni in cui non riusciva neanche a parlare, lo accarezzava e basta, e allora le sembrava che a volte lui, avesse qualche reazione, muovesse la mano, o addirittura tentasse di dire qualcosa. Battendosi come una leonessa aveva difeso il cucciolo, aveva preso a morsi il male, l’aveva preso a calci in culo finché non s’era arreso, aveva alzato bandiera bianca, e con la solita lentezza meticolosa con la quale era comparso, aveva iniziato la ritirata.
E lui aveva finito per migliorare. Le labbra avevano iniziato a muoversi, le braccia, tutto. Un po’ tardi, ma meglio che niente. E con l’andare del tempo, a una velocità inaspettata, il suo Bruno aveva ripreso a parlare. In modo strano, incoerente, strascicando e mangiandosi le parole, citando esclusivamente la solita offerta di tanti anni addietro sui pomodori , ma parlava. A camminare, tutto piegato da una parte, come un albero cresciuto sul fianco della montagna sempre esposto al vento, ma camminava. A uscire, a volte glielo riportavano a casa in ambulanza, altre, chiamava uno dei figli che andava a riprenderle il marito alla solita panchina ai giardini, dove era capace di passare immobile seduto l’intera giornata, ma usciva. Era tornato, ma svuotato di tutto.
E allora aveva moltiplicato gli sforzi per vedere cosa fosse rimasto là dentro dell’uomo che con gli occhi colmi di lacrime quel giorno l’aveva guardata e le aveva detto <<Oddio, quanto ti amo>> per poterli rivedere di nuovo, anche solo per un’ultima volta quegli occhi innamorati. Ma non succedeva nulla. Lui sedeva al tavolo, la guardava impaziente finché non andava a sedersi accanto a lui e iniziava ad accarezzargli la mano, poi tornava a sprofondare lo sguardo nella Tv, tornando in se ogni tanto solo per ricordarle quell’offerta.
“E’ stato amore?” si chiedeva a volte guardando il profilo imperturbabile del marito, perso tra le nebbie laceranti di antichi passati . “Certo che è stato amore, che altro se no? ” si rispondeva subito vergognandosi “ che ti aspettavi eh? Che ti eri messa in testa di fare? E’ tutto qui non c’è altro. E’ Il ciclo vitale. I ragazzi se ne vanno, l’uomo si ammala e poi muore”
<<Tre chili al prezzo di due>> continua lui senza tono di voce
<<eh, magari domani ci faccio un salto>> risponde lei con gli occhi fissi sulla mattonellina verde e blu, che al contrario di lei non è invecchiata per nulla, e scintilla ancora come quando c’era vita tra le mura della stanza<<domani>> ripete piano senza farsi sentire.
Posa un altro piatto lavato e resta così; appoggiata con entrambe le mani al mobile della cucina, con gli occhi velati della patina dei vecchi, ad osservare le gocce colare e infine scivolare via. Giù nello scarico, fino alle fogne, dove si uniranno ad altre gocce, che insieme andranno a formare una marea sotterranea e silenziosa, in una lenta, inarrestabile marcia verso la fine. Come un’amara consuetudine di vita.