sabato 12 maggio 2018

Da qualche parte nel tempo












Magari un giorno, da qualche parte nel tempo

ci incontreremo. L'ingombro della tua bellezza non sarà più un ostacolo e le mie parole usciranno abbondanti a quel punto, anche quelle soffocate tanti anni addietro sotto casa dei tuoi.

O resteremo zitti, chissà, complici in quella manciata di minuti lasciati in sospeso allora, quando eravamo convinti di avere tutto il tempo a disposizione e invece il tempo ce lo sfilarono via da sotto, con un prestigio che nessuno dei due capì.

Ma no, no. Tu mi parlerai dei tuoi figli, di tuo marito, delle cose che andrai facendo in giro per il mondo, preoccupandoti di non ricordare. E continuerai parlando del mutuo, della casa dei sogni finalmente vostra, dei suoceri claudicanti. E forse mi verrà voglia di unirmi al coro per non essere da meno, di elencare tutte le cose magnifiche che sono successe a me nel frattempo.

E passaremo qualche minuto a cercare di eludere il freddo nelle budella, gonfiando l'aria di parole vuote, raccontandoci di quelle che a tutti gli effetti assomigliano a vite autentiche.

mercoledì 23 novembre 2016

Crocevia











Non ho molti ricordi di mia madre, e comunque nulla su cui potrei puntare il dito e dire : ecco, mi ricordo di quella volta che...
Invece ricordo benissimo l'odore della sua lacca per capelli, il suo rumore per casa, la sua collana di perle e i golfini di lana sulle spalle. Anche alcune piccole manie come quella per i fotoromanzi, per la cronaca nera, per i romanzi Harmony. Forse da piccola sognava una grande storia d'amore e non so se l'abbia trovata nel babbo, in quell'uomo che ciondolava dal sonno da mattina a sera e poi di notte scompariva per tornare al lavoro.
Non rideva neanche tanto la mamma, ed era immune ai facili entusiasmi. I miei amici la temevano, avvicinarsi a casa mia il pomeriggio era un'impresa che pochi si sentivano di affrontare, ma lei doveva pur proteggere il sonno di quel buon uomo che si era sposata e non aveva pietà per quei piccoli farabutti che suonavano il campanello chiedendo di me.
È morta giovane e tra qualche anno la raggiungerò, nel senso che avrò i suoi anni di quando se n'è andata. Questo pensiero mi toglie il fiato. Nessun bambino comprende che i propri genitori un giorno non ci saranno più, la sua visione del mondo si basa su poche indissolubili certezze, due delle quali sono nella stragrande maggioranza dei casi il babbo e la mamma.
La sua è una fiducia costruita nel tempo, che ha fondamenta solide, contabilizzata dalle loro spinte all'altalena e che si alimenta nello spazio intermedio che separa la veglia dal sonno, quando il profumo di uno dei due è ancora nell'aria e il bacio della buonanotte è sempre umido sulla fronte.
Ma così è, il tempo non si può fermare e rimpiangerlo è un esercizio che regala poche soddisfazioni.
Però ogni tanto il cervello si diverte a ricreare dal nulla quell'aroma particolare, d'intimità domestica, di cui erano intrisi i suoi golfini caldi, oppure il tono sfinito (di chi ha esaurito la pazienza, ma conserva intatta la riserva d'amore) con cui spesso chiamava il mio nome; e mi riappare in quegli istanti, sembra chiedere se ci sono novità.

mercoledì 11 maggio 2016

Assenza di movimento







Oggi sono andato a porgere l’ultimo saluto a un vecchio amico del babbo. È ora, si sa. 84 sono tanti, ma per chi è ancora perfettamente lucido e consapevole del rapido declino, magari no.
Quando sono entrato nel reparto di Geriatria la prima cosa che mi ha colpito è stata una pesantissima sensazione d’assenza. Assenza di gente, di personale, di movimento, come se la morte fosse autorizzata in contumacia a svolgere preventivamente gli obblighi preliminari.

La stanza 252 contava quattro letti vuoti oltre quello occupato dalla persona che volevo salutare, e un altro nell’angolo di sinistra, dove un signore senza nessuno intorno sembrava dormire.

Ho abbracciato la moglie che mi ha subito ringraziato della visita, poi ho poggiato una mano su quella dell’anziano morente che ha aperto gli occhi. Vedendomi ha scosso la testa e ha sorriso riconoscendomi, con quel modo di fare che mi ha subito ricordato il babbo.
Non se ne leva le gambe” ha detto con un filo di voce; conosco quell’atteggiamento ironico, di sfida, col quale si cerca di esorcizzare la paura; nessun uomo è mai all’altezza dei suoi drammi.

Tutti conosciamo la situazione, anche lui: i reni hanno ceduto una settimana fa, lo stomaco rifiuta il cibo e l’acqua, eppure al mio fianco, la moglie ha iniziato a parlarmi di esami, di responsi in arrivo, di tempi d’attesa, di colloqui col primario in ponte per la prossima settimana.
Lui a due metri di distanza scuoteva la testa sorridendo mentre lei parlava, con gli occhi chiusi e le sopracciglia sollevate, testimoniando il fastidio per le sue ingenue speranze, ma anche affetto per quella donna che non s’arrendeva all’idea di restare sola.

A un certo punto lui l’ha fermata, ha iniziato a dirmi di salutare questo e quello, cose da uomini insomma, la pietra tombale sulle illusioni di lei, il suo modo di dirle “fattene una ragione, va così”. Poi ha poggiato la mano sopra la mia e con un gesto affettuoso e malinconico al tempo stesso ha cercato di stringerla con le poche forze rimaste.

Ho capito che mi stava congedando, così mi sono sporto un po’ sopra il letto e l’ho baciato sulla fronte, chiaramente un addio. È entrata un’infermiera col carrello per il mangiare. La moglie si è subito messa ad apparecchiare il minuscolo tavolinetto a lato del letto, e io ho pensato: “un uomo e una donna che sommano insieme le abitudini” ecco la vecchiaia. Poi si è avventata sul piatto di pasta in bianco al quale indubbiamente attribuiva capacità curative che andavano ben oltre quella della medicina.

Quando sono uscito dalla stanza lo stava implorando di mangiare altre due penne, e io ho pensato: “ecco l’amore, più semplice di così”.