venerdì 23 agosto 2013

Il topo e la luna (un racconto)




Inutile cercare di spiegarla a chi non l’ha vista, a chi non c’era.  A volte, ripensandoci, perfino io vengo assalito dal dubbio di averla davvero vissuta, di esserci stato veramente quella notte di fine estate, in piazza a vedere l’eclissi di luna.
    Io e il mio amico Simone c’eravamo preparati proprio bene ricordo.  A me ovviamente toccava portare da mangiare. Essendo figlio di fornaio la gente si era in qualche modo messa in testa che in casa mia il cibo lo  si raccattasse semplicemente di terra, che la mamma non avesse bisogno di cucinare,  che allungasse una mano verso il pavimento per poi tirarla su e trovarci, ogni volta, qualcosa di diverso e assolutamente gustoso attaccato.
    In  fondo a me  andava bene così perché di portare i  fumetti da leggere per ingannare l’attesa non se ne parlava proprio. Su quel fronte nessuno poteva battere Simone, proprio come a fare il verso del leone. Anche lì  era imbattibile! Parola mia che l’ho sentito.
     Aveva una conoscenza sconfinata in materia di fumetti,  mentre invece, sul versante cibo, sembrava fare difetto secco allampanato com’era.
   Sognava l’America Simone, la venerava addirittura . Qualsiasi cosa arrivasse d’oltre oceano generava in lui un senso d’ammirazione spontaneo e assoluto. Ora fa l’idraulico ho sentito dire, e,  cosa peggiore, non si è mosso di un centimetro in ventidue anni; altro che stelle e strisce. Abita ancora lì nella casa dei suoi.  I fumetti li scrivono gli altri,  la vita invece succede proprio a noi, e, di solito, ci  capita un po’ come vuole lei. 

 <<Ce n’hai messo di tempo cazzo>> mi disse subito, tanto per chiarire le parti  appena giunsi ai piedi dell’enorme statua  posta al centro della piazza <<Sto morendo di fame>>
<<Scusa. Dovevo aspettare che tornasse mio padre. Non potevo venire prima>> dissi allargando le braccia
<<Si ma… >> non terminò la frase. Rimase invece a osservare  l’enorme grumo di saliva che dopo aver fatto dondolare a lungo dalle labbra,  lasciò cadere  vicinissimo ai miei piedi <<Va beh, dai sali>>
<<Ma come faccio? Son mica buono a scalare io . Credevo rimanessimo giù>>  dissi con la testa quasi completamente rivolta in alto. Era in qualche maniera riuscito ad arrampicarsi  su una spalla di Savonarola , che,  con aria severa sembrava  guardare proprio me e ammonirmi a non provarci neanche  <<Cazzo Miche! Sei proprio un frocetto>> disse scoppiando a ridere << come credi che sia salito io?>> rispose iniziando l’incubazione di un altro proiettile di saliva
<<da lì?>> chiesi indicando la tunica del religioso che in prossimità del terreno s’increspava creando una specie di scalino  <<hm..hm>> rispose muovendo su e giù la testa, facendo oscillare avanti e indietro l’enorme goccia biancastra
    La busta con i panini m’impacciava i movimenti. Simone se ne rese conto prima di me <<Tiramela>> disse dopo aver sganciato,  allungando le braccia <<Così se ti rompi l’osso del collo almeno io ho da mangiare>> sussurrò come per non farsi sentire, con la solita faccia indecisa tra ridere o restare seria .  La piazza a parte noi era completamente deserta, ma insomma, certe cose si dicono meglio sottovoce, suppongo.
    Presi alla lettera il consiglio. Un po’ perché quella di sfamare il prossimo era considerata una vera e propria missione in casa mia, una cosa che nessuno aveva mai preso alla leggera. E poi perché effettivamente una volta liberatomi del fardello mi sarebbe stato più semplice tentare la scalata. <<Hai portato i fumetti?>> chiesi sorprendendomi a sussurrare anch’io
<<Si>> disse sventolandoli <<Guarda qua.  Appena arrivati da New York>>
<<Credevo venissero dalla California>>
<<In California non sono capaci di fare fumetti, cretino! C’è troppo sole laggiù . Questa roba ha bisogno della pioggia.> disse torcendo le labbra disgustato  <<Dai, tira questa cazzo di busta>>  Servirono ben sei tentativi, per ognuno dei quali Simone coniò in mio onore  nuove e simpatiche offese. Alla fine la busta rimase in qualche modo impigliata al dito accusatore di Savonarola, e il mio amico si allungò appena il necessario per afferrarla. Adesso aveva tutto lui:  Cibo, fumetti, e vista privilegiata. 
<<togliti le scarpe, fai più presa>>  disse col tono vuoto e  monotono di uno scalatore professionista scocciato,  alle prese con un dilettante. E in effetti, una volta tolte le scarpe la cosa si rivelò abbastanza semplice. I piedi sembravano come appiccicarsi al marmo, che, a torto, avevo invece sempre considerato estremamente scivoloso.
<<… non c’è da bere! Moriremo strozzati >> fu il suo benvenuto, quando, dopo un ultimo sforzo, riuscii a raggiungere la vetta e a mettermi seduto sull’altra spalla del frate. <<eh… >> risposi ansimando.  Mi guardò sospirando profondamente, poi scosse  la testa deluso.
Rimanemmo a lungo in silenzio, a fissare gli alberi di fronte.  Chi conosceva Simone sapeva che spesso si assentava,  attraversava una barriera invisibile ed entrava nel suo posticino privato . Si metteva a fissare un punto da qualche parte, e se ne andava. Si doveva aspettare che tornasse, semplicemente.
<<che lavoro fa tuo padre?>> chiese dopo aver scosso leggermente il capo, come chi si sveglia da un pisolino involontario.
<<Fornaio>> risposi, provando la solita strana sensazione d’imbarazzo.  Annuì pensieroso e poi  tornò  a fissare gli alberi . Cercai qualcosa da dire prima che mi lasciasse di nuovo <<il tuo invece?>> chiesi << che  fa?>>
<<Boh, faceva il muratore ultimamente… ora non so>> disse facendo nuovamente quel verso con la bocca<<Non lo vedo mai. Meglio così>>  Si mise a sfogliare i fumetti e ne scelse uno <<Oh! Questo è una bomba>> disse passandomelo <<L’ho letto in dieci minuti oggi>>
<<Ma non si dovrebbe già vedere qualcosa?>> domandai indicando la luna perfettamente tonda e ancora luminosissima
<<Hanno detto alle dieci e diciassette alla Tv. Mancano ancora ventidue minuti>> rispose dopo aver controllato l’orologio
<<Al mio ne mancano diciannove>>
<<Fa vedere>>
    Allungai il braccio passandolo  davanti alla faccia del frate, sentii che mi afferrava il polso <<Ma questo orologio è uno schifo>> esclamò ridendo <<ma perché vai in giro con quella porcheria? Guarda questo>> disse allungando il braccio verso di me <<E’ Belga>> disse infondendo una certa  sacralità al tono di voce < Dopo gli Svizzeri sono i migliori a fare gli orologi>> In effetti era davvero un bell’orologio <<chi te l’ha regalato?>> chiesi
<<niente… >> rispose <<… non ricordo>> e se ne partì per un altro viaggio che mi augurai fosse breve.
<<Mio padre dice che inizia con un’ombra>> dissi dopo un po’, per farmi compagnia più che altro <<Cioè, dice che si vede prima un po’ sfuocata la luna, prima che inizi a scomparire piano piano, come se la rosicchiasse un topo. Ha detto proprio così,  giuro ; un topo>>
<<Eh?>> l’avevo tirato fuori da chissà dove <<Ah. Un topo. Si si , tuo padre ha ragione. Confermo>>
<<Ma perché scusa tu l’hai già vista?
<<No>>rispose tranquillamente
<<E allora come lo sai?>>
<<Perché tuo padre mi ha sempre spirato fiducia. Mi sembra uno in gamba>> Non aggiunsi nulla. Solo  mi pareva strano che le sue convinzioni astronomiche si basassero sulla parola di un panettiere, ecco.
<<A che ora devi tornare tu?>>chiesi << io posso rimanere fino alle undici e mezza. Mi hanno dato zero flessibilità. “ Le eclissi non è che ritardano o cosa” dissi  facendo la caricatura della voce di mia madre “se gli scienziati hanno detto le dieci e diciassette sono le dieci e diciassette. Quindi torni alle undici e mezza. E ti va di lusso. Fine della discussione” >>
<<Io posso fare tardi. Frega nulla a nessuno in casa mia>> rispose sputando giù  <<Dai leggi, stai zitto>> Rimanemmo un po’ in silenzio. Ogni tanto alzavo la testa e guardavo la luna. Mi sembrava strano che tra poco sarebbe scomparsa, nascosta al sole dalla terra. Una cosa talmente grande che faceva male pensarci, eppure stava per succedere e noi c’eravamo!
A un certo punto dietro un albero di fronte a noi mi parve di vedere un movimento. <<Simo>>
<<Si? Che c’è?>>
<<Ho visto muovere dietro quell’albero. C’è qualcuno >>
<<Cazzo dici… ?>> disse alzando la testa dal fumetto
<<Ti giuro. Stavo per guar   ECCO VISTO?>> urlai indicando la testa sporgente dietro il tronco di un platano
<<… si>> rispose con un filo di voce.
<<Ma… che è? Viene verso di noi. E’ lui!>>urlai strozzando la voce  <<E’ lo straccione>> dissi agitando il dito in direzione dell’albero <<Quello che gira sempre...  L’ho visto anche prima venendo qui>> dissi ridendo, ma poi mi fermai. Il mio amico aveva messo su una  faccia così  bianca da fare concorrenza alla  statua. Pietrificato appunto. << Sputagli!>> urlai ridendo <<Dai Simo! Io non ci arrivo>> Niente. Fissava  quella sottospecie di essere umano senza muovere un muscolo. <<Tiragli un panino, magari se ne va>>  Adesso il barbone era ben visibile in mezzo al giardinetto subito di fronte alla statua .
    Nella penombra, appena illuminato dalla luce del satellite che qua e là riusciva a bucare la fitta coltre di rami, quello che una volta era stato senz’altro un uomo, spiccava in tutta la sua misera  essenza.
    E intanto però adesso era successa una cosa davvero strana. Lui e il mio amico Simone si fissavano. Giuro che si fissavano. Sembravano aver attraversato insieme una di quelle pareti invisibili che Simone era solito attraversare da solo, ed erano come entrati insieme a far parte di uno di quegli universi paralleli nei quali io non riuscivo mai a intrufolarmi. 
    Poi d’improvviso, come sempre , Simone si riebbe <<Sparisci!>> urlò ridendo  in direzione del barbone << Vai via! Via, sciò!>> urlava e intanto rideva, ma in modo rabbioso, innaturale. Il barbone allora, lentamente come era comparso, fedele alla sua personalissima eclissi esistenziale, prese a scomparire piano piano dietro al tronco dell’albero << Vaffanculo! Vaffanculo! Vaffanculo!  Via! VIA! >>  continuava a urlare  Simone. Aveva gli occhi iniettati di sangue, nella sua voce c’era più disperazione che divertimento però . In più,  il mento aveva preso a tremargli, come  fosse stato sul punto di  piangere.  Continuò a urlare per non so quanto tempo dopo che il barbone se ne fu andato.
     Io non sapevo cosa fare  ero senza parole, e, ammettiamolo, un po’ impaurito . Mi sembrava una reazione esagerata, sproporzionata, rimasi in silenzio facendomi piccolo  dietro l’enorme testa della statua. Magari si dimentica che sono qui, pensai.
<<Io vado>> disse poco dopo raccogliendo in fretta i fumetti  tutto agitato<<Quello te lo lascio. Me lo rendi domani a scuola>> E l’eclissi? Pensai <<Ma.. l’eclissi?>>
 <<M’importa un cazzo dell’eclissi a me. Me ne capiteranno altre cento… stai a vedere!>> Gettò i fumetti giù e scese in meno di un secondo. Lo guardai andarsene, lasciarmi solo in quella notte che avevamo deciso dovesse essere memorabile. Una volta in strada non iniziò a correre come avevo pensato data la fretta con la quale se n’era andato. Prese a camminare a passo lento, con un incedere  che mi sembrò  subito familiare. Come se quei passi li avessi incontrati già migliaia di volte in vita mia.
    Iniziò proprio come aveva detto papà. Un ombra avvolse dapprima la luna rendendola falsa, poco credibile, una specie di enorme bugia . Ero nel bel mezzo di un fenomeno cosmico. Dodici anni di bambino preso tra il sole e la luna.  Il pensiero mi fece quasi cadere giù . Poi arrivò il  topo, che prese  a rosicchiare senza fretta finché non se la mangiò tutta e fu soltanto oscurità  intorno a me. 
    Allora pensai a Simone e provai pena per lui che non aveva  voluto osservare uno spettacolo così grandioso. Pensai al barbone e provai pena anche per lui, che adesso, con tutta probabilità,  camminava rasente al muro di qualche palazzo spaventato a morte dall’improvvisa scomparsa della sua ombra . Sentii pena anche per il  babbo e la mamma, così  vecchi, così  presi dai loro affanni da risultare ormai  immuni a certe  gioie.
    E pensai anche al povero Savonarola, unico compagno d’avventura rimastomi  in quella strana notte. A quali potessero essere stati i suoi ultimi pensieri prima che accendessero il fuoco . Se avesse pensato a dove sarebbe andato a finire di lì a breve , se davvero in cuor suo credesse alla storia del paradiso.  Su chi, tra la folla urlante, avesse per ultimo posato gli occhi, prima che si facesse buio.

lunedì 12 agosto 2013

Una leggera carezza di vita (Un racconto)








                                                                                CUCINA

 

 

<<Insomma mi dici che cazzo vuoi da me?>>

<<Questo>> disse l’uomo  muovendo in cerchio la mano  con l’indice  alzato, come a  indicare un tutto immaginario

<<Questo? Questo cosa?  QUESTO?>> Urlò Gemma gettando sul tavolo un mazzo di bollette scadute.

<<Si questo. Prendo tutto il lotto>>

I due rimasero a fissarsi negli occhi  <<Tu sei matto da legare>> disse poi lei scuotendo la testa, tornando ad armeggiare alla caffettiera.

<<Mamma, il pigiamino dove l’hai messo?>>

<<Sopra la  lavatrice in bagno, amore>> rispose la donna

<<Che sono matto non è la prima volta che me lo dicono… >>  

<<No, scusa…! Ecco, vedi? Non è mica quello che volevo dire>> disse lei lasciando cadere le braccia lungo i fianchi <<E’ che non sono brava sai, a far>>

<<Lo so, lo so>>

<<Insomma lo sai in che situazione… no?>>

<<Certo che lo so>> rispose lui calmissimo. <<Non ti preoccupare.  Non me ne frega niente>> disse alzandosi per abbracciarla.

<<è… è,  che  mi hanno fatto troppo male… vedi? >> tra le braccia di Michele  Gemma si  lasciò andare a un pianto leggero << Sono sempre sulla difensiva ora, non mi fido più di nessuno >>

<<E io sarei il matto? >> sussurrò lui nell’intimità dell’abbraccio << Chi si è addormentato sotto il sole in pieno agosto senza un minimo di protezione?>>

<<Vaffanculo>> rispose lei mettendo su una finta faccia corrucciata   <<Fammi fare questo caffè per l’amor del cielo>> disse poi spingendolo verso la sedia sorridendo . Le lacrime avevano allentato la presa del rimmel intorno agli occhi dai quali adesso scendevano due minuscoli rigagnoli neri.

<<E lei? C’è anche lei,  sai?>> continuò poco dopo indicando con la testa la direzione dalla quale era arrivata la voce della bambina.

<<Prendo tutto ti ho detto>>

Gemma sospirò profondamente.  Erano, quanti? Quasi due mesi che uscivano insieme, giusto? Mai una parola di troppo, mai un gesto sconveniente, mai che avesse osato spingersi un po’ oltre i soliti baci. Possibile?

<<Rassegnati, non hai scampo>>  aggiunse Michele sorridendo.

<<non lo trovo mamma>>

<<Aspetta qua>>  gli fece cenno lei

<<e chi si muove>>

<<la sopra, vedi? Aspetta, ecco pr…>>  La voce era svanita poco alla volta, adesso probabilmente si trovava in bagno e stava aiutando Doretta a indossare il pigiamino. Gli occhi di Michele  iniziarono a ispezionare la cucina mentre il naso prese  a fare  razzia di quel buon odore di confusione e arance che regnava nella stanza.  Il frigo  sembrava una bacheca universitaria. C’era attaccato di tutto, tranne la targhetta della marca che era venuta via condensando il suo ricordo in un rettangolo grigio. Anche il piano della  cucina non era messo meglio. Le manopole del  gas erano soltanto tre, una non c’era più. Studiò le bollette che Gemma gli aveva tirato contro, nulla che non potesse essere aggiustato.

<<che fai, spii?>> domandò lei rientrando in cucina

<<effettivamente>> sorrise   <<Dorme?>> chiese indicando con la testa la porta della cucina.

<<Chi?... magari tra un paio d’ore, se tutto va bene>>

<<Senti>> Michele congiunse le mani davanti alla bocca, mettendo gli indici proprio sotto il naso  <<Mi piace questo>> disse dopo una breve pausa  con  tono di voce  tranquillo ed estremamente serio  <<Te, la bambina, … quello>> indicò il frigo colmo di buoni sconto, buste verdi e cartoline gialle.  Gemma a disagio  cercò rifugio nella fiamma sotto la caffettiera .

<< Non farmi andare via stanotte>>

<<Perché? Dimmi solo perché.>> rispose lei  voltandosi di scatto

Michele preso alla sprovvista ci mise un po’ prima di rispondere <<… Perché vorrei guardarti addor>>

<<No cazzo! Non intendevo quello. Perché lo fai? Cos’è, vuoi sentirti una persona migliore?   Il riccone che s’innamora dell’ex puttana drogata? Eh? Avanti! Parla, che non ho tempo da perdere. C’ho una figlia da crescere io!  Sono già tutta piena di lividi, non ho bisogno di farmi ancora del male>>

<<E’ dura da spiegare>>

<<Sentiamo>>  disse lei accendendosi nervosamente un’altra sigaretta

Michele la guardò, poi sorrise scrollando la testa <<Mi sono accorto di amarti  il giorno che siamo andati insieme al Supermercato>>

 <<Eh?>>

<<Si…  insomma,  ricordi il casino che c’era? E tu che non avevi soldi per pagare. Io mi sono offerto ma tu non ne volevi proprio sapere. Stavi  lì con quel mazzo di buoni sconto e la calcolatrice in mano, e c’abbiamo messo quasi due ore per fare neanche mezza  spesa >> lui la guardò cercando conferma

<<Si, e allora? E’ per pena allora?>>

 <<No, no.  Poi è arrivata quella vecchina, ricordi? Si era persa. L’abbiamo aiutata a fare la spesa  , abbiamo ricominciato tutto da capo. E più ti riusciva quella cosa di aiutarla e più diventavi felice. Si vedeva sai?>>  Gemma distolse lo sguardo sentendosi avvampare .

<<Eh, ecco che c’è>> disse Michele a disagio, disegnando qualcosa con la scarpa sul pavimento << Io… non ho mai avuto nulla. Solo pacche sulle spalle e strette di mano in vita mia , nient’altro... >>

<<mi sembra un po’ poco per amare una persona>> disse allora lei senza guardarlo

<<Ma l’amore è un’astrazione Gemma. Non esiste un motivo soltanto per amare una persona. Si ama una persona per un insieme di cose, perché la somma di tutte quelle cose ce la rende amabile, desiderabile. Certo… non ti amo mica solo perché hai aiutato la vecchina, intendiamoci>> disse aiutandosi con ampi gesti delle mani <<Quello è l’episodio che mi ha fatto accorgere di amarti. L’ultimo pezzo del puzzle, quello che fatto  “click” >>

<<Ha fatto che?>> chiese lei voltandosi sorridente. Quando faceva così le veniva voglia di prenderlo a morsi da quanto le piaceva.

<<Click>>  rispose lui calcando la k  finale, cercando di trattenersi dal ridere. Chissà come gli era venuta quella.

<<Ho letto da qualche parte che non si ama davvero l’altro>> disse lei facendosi pensierosa <<ma si finisce sotto una specie di lente d’ingrandimento, o Dio sa cosa… ora non ricordo. Insomma, si cerca nell’altro la nostra immagine migliore, una proiezione o qualcosa del genere>>

<<Non so che vuol dire>> rispose Michele <<So solo che ti amo e che voglio stare con te. Solo quello>>

Nella cucina nessuno parlava, fuori il vento faceva muovere il telo di plastica che serviva per coprire i panni stesi.  Il frigorifero raggiunta una temperatura troppo alta si mise in moto.

<<Vado a vedere se dorme>> disse lei indicando la porta, e corse via con le guance in fiamme  . Lui rispose sorridendo.

Tornò poco dopo. Si era  lavata il viso <<Dorme>> disse sottovoce.

<<Dai, non è andata male no?>>

<<No, no. Di solito ci vuole più di un ora. >> lo guardò con dolcezza, poi si sentì mancare vedendo la lunga colonna di formiche sul muro subito dietro le  sue spalle. L’aveva vista? Certo che si. Non dovrebbero già essere in letargo?

<<Allora, che hai deciso? Ci vieni domani?>>domandò Michele

<<Sull’ambulanza? Ma tu sei…>> Troncò la frase. Poi riprese << No guarda, con tutto che mi piace aiutare gli altri,  andare in giro a raccogliere per strada pezzi di altre persone non fa proprio per me>>  disse facendo il verso di rabbrividire

<<Non sull’ambulanza! Ah, Ma allora la matta sei tu >> esclamò Michele ridendo  <<E comunque, guarda che non è così. Anzi molto spesso non succede proprio  niente. A volte, semplicemente, andiamo in case di persone anziane. Devono cambiare il catetere, oppure hanno bisogno di un po’ d’ossigeno. C’è chi ci chiama perché ha solo bisogno di parlare, sai? Ce n’è una poi>> disse Michele iniziando a sorridere  <<Muoio! Muoio! Urla al telefono come una pazza. “ La Mantide” si chiama noi…  non so neanche perché a dire il vero>> rimase un po’ bloccato cercando di dare un senso a quella parola <<Sembra pazza ma non è>> riprese << Vive tutta sola in un appartamentino che sembra la casa delle bambole, ce l’hai presente? . Ci trovi di tutto lì dentro. Io, mentre gli altri  cercavano di parlarle un giorno ho fatto un giretto per casa>> disse strizzando l’occhio. La mano prese a frugare nella tasca dei pantaloni <<e ho preso questo>> Tirò fuori un aggeggio molto vecchio, di quelli che si usavano per metterci una sola fotografia.

<<Ma è d’oro?>> chiese lei spalancando gli occhi

<<Si, credo>>

<<E tu glielo hai rubato?>>

<<Rubato…. Guarda che spettacolo>> Disse aprendolo.  La bambina era stata posizionata leggermente di traverso sopra una specie di palco.  Alle sue spalle, uno sfondo di teli e cassettoni facevano da cornice  a quello che sicuramente era il set di un fotografo professionista. Le avevano messo un vestitino chiaro che arrivava poco sotto le ginocchia. Impossibile indovinarne il colore, poiché la foto era in bianco e nero, ma Michele aveva maturata la convinzione che fosse bianco. Gli piaceva l’idea del bianco.

<<Ma chi è?>> chiese Gemma

<<eh, e che ne so. Ma è bella, no?>>

<<Si, si bella. Forse la figlia? >>

<<No>> rispose secco lui <<La figlia dev’essere più recente. Questa è una foto davvero vecchia. Magari è proprio lei “La Mantide”>> inclinò la testa per osservare meglio  il bel volto della bambina, i bei capelli chiari che le scendevano fin dietro le spalle. Il fotografo aveva scelto un espressione piuttosto maliziosa per quei tempi. La bambina fissava l’obbiettivo con un’aria equivoca, imbarazzata ma divertita al tempo stesso. C’era molto altro in quegli occhi, si vedeva subito.

 <Ok, allora>> disse Gemma scuotendolo appena  dalla contemplazione del bel volto innocente

<<ok?... >>

<<Ok, resti a dormire con me>>

<<Mi sembra un’ottima idea Gemma, davvero ottima>> disse distrattamente lui ancora perso nello sguardo ambizioso della piccola.

<<Vado a dirglielo>>

<<Si, si, vai. Diglielo. Bisogna sempre dire tutto ai bambini; tutto>>

Non l’aveva neanche guardata, continuava a osservare la bambina, gli occhi persi dentro la fotografia. Gemma si era aspettata una reazione un po’ più eccitata invece Michele era come caduto in tranche  di fronte a quella foto sbiadita. Sgusciò fuori dalla porta della cucina piuttosto eccitata nonostante tutto. Erano quasi due anni che non dormiva con un uomo accanto, magari voleva fare l’amore? No, non era da lui, troppo per benino il suo Michele.

 

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                                                                            CAMERETTA

 

    <<Dormi?>> chiese sottovoce appena affacciatasi sull’uscio della cameretta. La bambina per tutta risposta si mise a sedere tutta allegra sul letto.

<<Ah, ma allora non mi ascolti mai te. Eh?>>  disse sedendosi sul bordo del letto

<<Senti Doretta>> iniziò cercando le parole << … oddio la mia signorina! Vieni qua che ho bisogno di un bell’abbraccio>> disse poi  con voce rotta dall’emozione.

La tenne tra le braccia un po’. La bambina, confusa,  non rispose all’abbraccio. <<Senti, a me Michele piace molto. Mi sembra proprio una brava persona, me lo merito no? Insomma… tu che dici?>> Doretta rimase un po’ a fissarla senza capire <<ti piace Michele?>>

<<Si, mi piace>>

<<allora non hai nulla in contrario se io e lui usciamo un po’ insieme?>>

<<Si, mi piace>>

<<Ecco appunto… >>

<<Hai messo i soldi nello zaino mamma?>>

<<… >>

<<I Ventidue Euro. Per la gita. >>

<<ah! La gita,  capperi però. Ventidue? Ora te li metto, dormi vai >>

<<ricordatelo però, sennò non riesco ad addormentarmi>>

<<ti ho detto che ora te li metto, dormi su>>

<<Non fare come l’altr>>

<<Ti ho detto che te li metto!>> urlò Gemma scattando in piedi.   Doretta  si fece piccola nel letto portando le ginocchia sotto il mento<< Se la mamma dice una cosa sai che la fa, no!?>> La bambina fissava la mamma con gli occhi spalancati. <<ascolta>> disse poi Gemma rimettendosi seduta prendendo a sistemare i capelli alla bambina  <<domani , quando torni dalla gita io e te andiamo a farci una passeggiatina in centro. Ti va?>>

<<si..>>

<<Magari, chissà che non ti compri qualcosina, eh?>>

<<SI!>>

<<Ecco, brava la mia bambina>> disse accarezzandole la testa <<Io e te. Sempre unite. Dammi un grandissimissimo bacio cavolo, che ora  ne ho proprio bisogno>> Doretta allora si mise in ginocchio e le diede uno dei suoi “ umidissimissimi salivosi”   sulla guancia. <<dormi adesso, non farmi arrabbiare>>

<<’notte mamma>>

<<’notte amore mio>>

 

Trovò Michele  ancora fermo nella posizione di prima. Sembrava non si fosse mosso di un millimetro, eppure era stata via quasi cinque minuti.

<<Senti… non prenderla nel modo sbagliato Michele. Non vorrei che ti facessi>>

<<Hai già cambiato idea?>>

<<No, no. Non è quello>> Non era per niente facile da dire

<<Beh, allora che c’è scusa? >>

<<Non è che avresti da prestarmi venti euro? Non prenderla nel modo sbagliato Michele ti prego .  E’ che >>

<<Ma certo. Che problema c’è scusa?>> disse lui <<Ne vuoi cinquanta? Prendine cinquanta! Non ti preoccupare.…  so cosa stavi per dirmi,  non mi è neanche passato per la mente>>

<<Non vorrei che ti facessi idee sbagliate ecco. E’ che la bambina va in gita, e io non ho soldi in casa. Domani appena troviamo un bancomat te li restituisco>>

<<Ma io non li voglio! Dove va? Beata lei>>

<<Non so dove vanno . Cazzo, me ne ero proprio dimenticata. Colpa tua, mi fai perdere la testa>> Gemma si avvicinò al tavolo poi ci saltò sopra mettendosi seduta proprio di fronte a lui.

<<Che dici? Andiamo a letto?>> con il piede prese a frugare le parti intime di Michele sorridendo maliziosa

<<Gemma… >> disse allora lui con un vago accenno di rimprovero nella voce

<<Michele… >>

<<Non c’è ritorno ... Sei sicura, vero?>>

<<Sicurissima>>

 

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                                                                     GIORNO SEGUENTE.   PULLMAN

 

    <<Allora com’è andata. Ti sei divertita?>> disse Gemma abbracciando Doretta appena scesa dal pullman

<<No!>>

<<Come no? Perché che è successo?>> la bambina non rispondeva. Gemma tentò allora l’altro approccio.

<<è per via di Laura?>>

Doretta tutta imbronciata scosse con violenza la testa

<<Rita?>>

Ancora un no con la testolina. Altri ventiquattro nomi.

<<La solita Emma?>> un altro no. Ventitré.

<<Anna? E’ per colpa di Anna?>> finalmente la piccola annuì

<<Che ti ha fatto piccolina?>>

Il pianto arrivò insieme alla confessione <<Dice che non so giocare a nascondino>>

<<Ma no, vedrai che non voleva dire proprio così>>

<<E invece si!>> urlò la piccola battendo i piedi in terra  <<Lo dice sempre! Ogni volta che giochiamo lei dice che io non so giocare! >>

<<E’ terribile piccolina>> disse Gemma stringendola forte  << appena trovo  in giro la sua mamma glielo dico io va bene?>> Doretta annuì continuando a singhiozzare tra le braccia della madre.

<<Senti, allora ti va se io e te andiamo a fare compere? Lo vuoi un mega gelato?>>

<<SI!>>

<<ok allora. Siamo fortunate perché Michele è un uomo davvero generoso sai? Ci troveremo bene con lui, vedrai>>

<< Michele non è come lo Zio Nereo vero?>> chiese Doretta che intanto aveva già smesso di piangere <<Non si arrabbia lui, vero mamma?>>

<<No amore mio. Lo Zio Nereo era una persona cattiva>>  rispose Gemma,  stringendo forte la mano della bambina ripensando alle botte ai cazzotti e soprattutto a quella volta…

<<A me non piaceva per niente. Mi faceva paura mamma>>

<<Vedrai che non torna più ora>>

<<dov’è?>>

<<Non torna Doretta, non torna. Stai tranquilla>> disse passandole un braccio intorno al collo e stringendosela contro un fianco. La luna già alta nel cielo  ma dai contorni ancora incerti  stava lassù in attesa,  con ancora un vago tremore di trasparenza. Sembrava non riuscire ad averla vinta quella sera su un sole che due ore più tardi indugiava ancora sui loro capelli.

<<Questo è l’ultimo!>> urlò alla bambina quando le passò davanti urlando sorridente avvinghiata al corrimano del Bruco “ottovolante” .  Dopo aver svoltato l’ennesimo angolo della giornata era spuntato in lontananza il Luna Park,  Doretta  le  era sfuggita di mano e non c’era stato modo di riacchiapparla. Non che avrebbe voluto farlo dopo tutto. Dopo il gelato, il vestitino, le caramelle supergelatinose e i Pop corn neanche toccati e buttati direttamente nel cestino, le rimanevano ancora trenta Euro e spiccioli dei Cento che Michele le aveva lasciato.

    Lui le aveva dato un bacio sulla tempia quella mattina alzandosi per andare al lavoro. Gemma non aveva avuto il coraggio di ricordargli di lasciare i soldi, aveva aspettato fingendosi addormentata che se ne andasse. Appena Michele aveva chiusa la porta di casa per uscire  era schizzata fuori dal letto per andare a controllare che glieli avesse lasciati, ma non aveva trovato niente. Niente di niente.

 “se n’è dimenticato”  

Che fare? Ancora un’ora poi avrebbe dovuto accompagnare Doretta al Pullman.  Aveva iniziato a sfogliare la rubrica del cellulare alla ricerca di un cognome al quale non avesse già chiesto soldi. Leggendoli, ognuno di quei nomi si accorse che erano legati tutti a episodi specifici che ricordava benissimo. L’affanno, la fretta assurda, sempre di corsa, qualsiasi cosa facesse all’epoca  doveva correre, non c’era verso di fare le cose con calma come tutti gli altri.  Sempre in agitazione. E poi la sensazione di essere sempre sotto osservazione, come se qualcuno la spiasse di continuo. E tutti quei numeri avevano comunque il potere di farle salire in bocca un sapore terribile.

      La mamma di Anna era l’unica alla quale non aveva mai osato chiedere nulla. L’odio che divideva le due bambine si era in qualche modo propagato alle madri, per osmosi.   Aveva premuto il pulsante per la composizione automatica del numero ma invece di trovarsi a parlare con Marisa, aveva trovato  la voce di Michele

<<Pronto? Ma mi senti?>> stava dicendo lui nel microfono . Sulle prime non aveva capito.

<<Michele?>> aveva chiesto confusa

<<Ah, ci sei allora. Com’è andata?>> aveva risposto a una sua chiamata senza neanche saperlo

<<In che senso?>>

<<I soldi li hai trovati?>> fece lui

<<hmm… no. Ma non importa sai?>> si era affrettata a dire <<non ti preoccupare>>

<<Sul comodino. Non li hai visti?>> il comodino? E chi cazzo c’aveva pensato a cercarli sul comodino?

<<Non volevo lasciarli sul tavolo in cucina. Non volevo che li vedesse Doretta, magari… >> disse lui  senza terminare la frase

<<Ah! Grazie. Non li avevo mica cercati ancora sai?>> disse Gemma sentendo l’angoscia scivolare giù sul pavimento <<Ero qui che stavo pensando>> si bloccò a metà frase. Era corsa in camera per controllare e sul comodino aveva trovato cinque banconote da venti <<Michele! Ma sei scemo? Cento ?>>

<<Dai… divertiti. Te lo meriti! >> aveva risposto lui ostentando la tranquillità tipica  di quelli ai quali i soldi non fanno difetto <<Anche lei se lo merita. No?>> 

<<Oh, Dio Grazie. Sei un amore. Ma sono troppi davvero… stasera te ne rendo la metà>>

<<e io te li rinfilo di nascosto in tasca>>

<<ah ah  Spiritoso>>

<<mamma sono le nove>>

<<Senti devo andare. La capa mi chiama>>

<<Ciao. E divertitevi stasera. Dai un bacio per me a Doretta>>

<<Michele?>>

<<si?>>

<<A che ora torni stasera?>>

<<A che ora torno stasera>> le aveva fatto eco lui con voce divertita <<hmmm… vediamo… dovrei finire per le 21>>

<<Ti aspetto>>  aveva risposto lei senza chiudere la telefonata. Un lungo silenzio carico di significato aveva fatto  seguito a quelle parole, prima che lui dicesse <<A stasera>>

 

 

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                                                                       LUNA PARK

 

    <<OHO!NON CI POSSO CREDERE!>> 

Gemma non ebbe bisogno di voltarsi. Avrebbe riconosciuto la voce anche in mezzo a una folla di persone urlanti.  Si sentì gelare il sangue ma allo stesso tempo capì subito che la calma non l’avrebbe abbandonata.

<<Sono con la mia bambina>> disse senza voltarsi

<<Ah>> fece la voce << Cazzo, oh. Quanto ha adesso?>>Si fingeva interessato. Atteggiamento tipico.

Gemma non rispose. Non aveva bisogno di guardarlo. Se lo immaginava benissimo. Capello lucido, sguardo vacuo, faccia tirata e zigomi sporgenti. Pizzetto curato, gesti bruschi e scoordinati. Vestito di bianco come sempre.

<<Veronica vero?>> le sussurrò lui nell’orecchio

Gemma sospirò a fondo <<Doretta. Si chiama Doretta>>

<<AH! E’ vero cazzo! Me lo ricordo oh!>>  disse lui alzando la voce

<<Ascolta Gianni>> disse Gemma respirando profondamente <<Lasciaci sole, va bene?>>

<<Hey… Hey… Non voglio mica disturbarla Signora >>  calcò di proposito sull’ultima parola <<Che non posso neanche salutare una vecchia cara amica? Mamma mia che gente, oh!… >> 

<<No>> rispose lei ripensando alla cantina buia, al materasso puzzolente buttato in terra , alla bombola del gas attaccata in qualche maniera alla stufetta, e a tutte le volte che aveva pregato di saltare in aria con tutto il palazzo. Ai tre Euro T R E ,  che lui le aveva tirato nel viso l’ultima volta che l’aveva scopata laggiù. E a come li aveva raccatati di terra quei tre euro,  piangendo, graffiandosi  le unghie  sul pavimento.

<<Levati dai coglioni>>

<<OH!>> esclamò << Ma vaffanculo eh?>> disse abbassando la voce.  Aveva messo la bocca vicinissima al suo orecchio e bisbigliandoci dentro, senza volerlo,  era riuscito a creare un bell’effetto << Chi ti ha portata all’ospedale l’ultima volta?>> sembrava un serpente <<Chi? Te lo ricordi, eh?>>

<<UHU!>> urlò Doretta tutta felice passandole davanti per iniziare l’ultimo giro. Gemma rispose con un bel sorriso che impegnò tutta la bocca.

<<Quella li>> sibilò ancora la voce  <<Quella li… lo devi a me se c’è. Ricordalo>>

E che doveva fare, ringraziarlo forse? Scelse di rimanere in silenzio. Tutto doveva comunque finire. Un minuto , forse  due, magari anche dieci . Ma sarebbe finita. E poi ci sarebbero state soltanto lei e Doretta, con il loro Michele.

<<Eri e rimani una troia>> sembrava averle infilato tutta la bocca nell’orecchio << Quelle come te non cambiano>>  furono le sue ultime parole. Sempre senza guardarlo lo vide andarsene. Camminava piano, strascicando leggermente il piede destro.  I pantaloni troppo larghi ma in compenso sempre puliti.

 

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                                                                            CUCINA

    Da quello che riusciva a sentire dalla cucina sembrava che Spongebob avesse subito una specie di mutazione. Non solo non riconosceva più i vecchi amici, ma adesso aveva addirittura la necessità di far loro del male. E faceva quella risata raccapricciante quando gli riusciva. 

    Non osava dire a Doretta di abbassare il volume. Sentire i cartoni che piacevano alla figlia era piano piano passato dall’essere parte di un sottofondo monotono e costante paragonabile al nulla,     a una vera e propria  necessità. Era successo in modo naturale, senza che se ne rendesse conto. La televisione, le musichette, addirittura le pubblicità, tutto era diventato parte di un altro tutto. Il tutto di tutto, come le piaceva chiamarlo, quello che si ricostruiva ogni giorno intorno alla figlia e che necessariamente doveva passare attraverso quelle musichette, e quelle  pubblicità.  Solo così, e in nessun altro modo, immersa in quella carezza noncurante di urli, risate, e musica,  dopo poco Gemma si sentiva attraversare da quella sensazione di completezza assoluta. Non era uno scherzo. Nell’altra stanza c’era sua figlia. Frutto del suo amore di madre, e di nessun altro. 

    Ed era vera, reale. Bastava affacciarsi sulla porta del salotto per trovarla li, distesa sul pavimento a guardare la Tv con le mani che facevano da piedistallo per la testa.

    Sospirò a fondo, poi tornò a girare il sugo.  Controllò ancora una volta il muro vicino al tavolo. Dal minuscolo foro tra le piastrelle non giungevano segni di vita .Passò una mano sulla tovaglia, la piega invisibile sparì.  Tre piatti, tre scodelle, tre bicchieri. Si sentì scuotere fin nelle fondamenta  “una famiglia”

    Le venne in mente Claudia, sua sorella. Adesso viveva vicino Como. Erano cresciute insieme, nella stessa cameretta, fino ai vent'anni quasi; avevano condiviso ogni cosa. Poi quella sera lei aveva svoltato a destra, la sorella invece era andata a sinistra, verso casa.  E da allora tutto era precipitato.  Non le parlava da dodici anni e tre mesi. Dall’ultima richiesta di denaro.

<<Vorrei che tu morissi… ecco>> le aveva detto al telefono

<<Ti prego>> urlava  Gemma << Dammene soltanto duecento allora>>

<<Come vanno a scuola eh?>> era arrivata addirittura a chiedere. Quanto si vergognava adesso di quella domanda buttata li, per disperazione. Non ricordava neanche i nomi dei nipoti  <<Salutami anche Piero! Dai Claudia… >> aveva proseguito implorando  << Mandamene Cento e non ti rompo più. Ti prego, sono disperata, il Natale. Dio mio non ho soldi… >>

<<Hai fatto morire la mamma. Crepa! Fai un piacere a tutti>>  le aveva risposto innece l'altra e aveva riattaccato.

    Quanto avrebbe voluto che la sorella vedesse quella tavola adesso.

     Le 20.23 c’era ancora tempo prima che arrivasse. E invece no.  Suonarono alla porta  “Michele, accidenti a te” pensò correndo ad aprire.

 

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                                                                           SALOTTO

 

    La televisione ora taceva, dal salotto le arrivavano  in un sussurro le voci di Doretta e Michele. <<Si, però no>> stava dicendo lui <<Ecco, lo devi mettere qui, vedi?>> silenzio <<così almeno sappiamo che loro sono amici>> le stava spiegando con voce paziente. Gemma non poté resistere a lungo e sperando di non essere scoperta subito scivolò dietro lo stipite della porta mettendosi a spiare.

    Erano sdraiati a terra, uno accanto all’altra.  “Si sporcherà la camicia” pensò subito vedendo quella bella camicia bianca,  importante. Doretta prese tra le dita il benzinaio della città di plastica a cui stavano dando vita sul pavimento <<Anche lui ?>> chiese indicando il centro della piazzetta all’interno della  quale c’era già diversa gente <<Non, so>> rispose Michele <<Non so davvero… A me questa  faccia non piace per niente>> disse rivolto alla bambina <<Li vedi che occhietti furbi?>> Doretta si trovò faccia a faccia col minuscolo benzinaio. Poi disse di si sollevando e abbassando la testa <<Secondo me… >> Michele lo fece girare in tondo sopra la città, poi lo depositò nell’angolo in alto a destra. Quasi fuori dal tappeto <<Lui sta bene laggiù. Mi sembra uno buono solo a fare guai>> disse sorridendo alla bambina. Poi accorgendosi della madre sulla soglia le fece un cenno col capo come a dire che non aveva proprio idea di quello che stava facendo.

    Lei gli sorrise col cuore che batteva forte, le mani leggermente sudate e gli occhi velati di lacrime. Poi, proprio come faceva sempre sua madre , dopo aver  osservato per l’ennesima volta la tavola piena di ogni ben di Dio apparecchiata alla perfezione per il pranzo Domenicale,  esclamò :  <<FORZA! Tutti a tavola>>

 

                                                                 Lettera, Epilogo.

 

“Cara Claudia, questa è tua nipote Doretta.  Oggi ha festeggiato il suo sedicesimo compleanno. Nelle foto lei è quella un po’ più alta delle altre, quella che sta reggendo la scatola blu.

Non sto certo a raccontare la confusione  che avevo per casa  a una che c’è passata prima di me.  Comunque ringraziando il cielo è andata, è passata, e finalmente adesso posso prepararmi per andare a dormire, sono stanchissima.  Ti starai probabilmente chiedendo il perché di questa lettera dopo quasi diciotto anni, e, se non l’hai già gettata nel cestino voglio rassicurarti subito dicendoti che non sono in cerca di soldi o favori.

E’ soltanto che per caso oggi mentre apparecchiavo mi sei venuta in mente te. Cioè, a dire il vero mi è venuta in mente la mamma, quel giorno che io e lei restammo sole,  a preparare  la tavola per il tuo compleanno. Compivi quattordici anni e io ti prendevo sempre  in giro perché non avevi ancora baciato nessuno.

Insomma, te la racconto ma puoi immaginartela benissimo da sola per tutte le volte che l’hai vista anche te in quelle condizioni. Sembrava avesse un diavolo per capello, ma si vedeva  fin da chissà dove che era felicissima mentre lisciava la tovaglia e controllava per la centesima volta che tutto fosse in ordine. Perfino mentre mi  lanciava una di quelle sue occhiate gelide, tremende, solo perché avevo portato in tavola la cosa sbagliata si vedeva che c’era tanto altro subito dietro a quegli occhi severi.

    Come quella volta ricordi? Quando venne di nascosto in camera a portarci la cena dopo che il babbo ci mandò a letto senza mangiare perché avevo preso quel brutto voto in geografia  e tu ti eri messa in testa di difendermi . Ricordi com’era? Lo sguardo terribile, non disse una parola, ma alla fine  i gesti  la tradivano sempre,  e proprio prima di andarsene fece il verso di girarsi per darci un bacio, ma poi ricordò che doveva essere dura e non lo fece. Se non se ne ricordava in tempo giuro che glielo avrei detto io.

    Rimanemmo a lungo a osservare la tavola  sai quel giorno? Quanto eravamo soddisfatte . Quando finimmo, me lo ricordo come fosse adesso, venne vicina e mi  mise un braccio intorno al collo. Restammo così, a contemplare la nostra opera per non so quanto tempo, ricordo soltanto che alla fine lei strinse affettuosamente il braccio e poi chinandosi mise la guancia proprio attaccata alla mia e disse <<Grazie tesoro . Senza di te non ce l’avrei proprio fatta>> poi mi baciò.

Sapevo che non era vero, l’avevo solo intralciata,  ma  presi quel ringraziamento e me lo tenni stretto stretto per tutto il giorno,  perché non era proprio da lei dirle le cose.

Adesso ti saluto, scusami nuovamente per il disturbo. Ah! Ti allego una foto di mio marito. Si chiamava Michele. Era proprio un uomo in gamba sai? Ti assomigliava per certi versi… così precisino. Ti sarebbe piaciuto, e anche alla mamma sarebbe piaciuto. E’ morto l’anno scorso, incidente. La mattina prima di andarsene a lavorare mi sussurrò una cosa all’orecchio, e poi mi diede un bacio sulla guancia, proprio come fece lei quel giorno.  Non ho fatto in tempo a chiedergli cosa avesse detto che era già fuori dalla porta, non me lo sono mai perdonata.  Ci sono sempre due cose adesso che mi tengono compagnia nei momenti bui. 

Se ti va scrivimi,  ti voglio bene.

Pulcetta.